Il Sud Italia: non solo cattive notizie
ANSA /Tiberio Marchielli - Ufficio Stampa Palazzo Chigi
Economia

Il Sud Italia: non solo cattive notizie

Nel Mezzogiorno si produce un valore aggiunto dell'industria manifatturiera che supera quello di altri stati europei

Federico Pirro è docente all'
Università di Bari e membro del Centro studi Confindustria Puglia

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Ma ha senso descrivere il Mezzogiorno solo come un’area a rischio di desertificazione industriale, come è avvenuto nell’ultimo Rapporto della Svimez? Nonostante la grave recessione degli ultimi anni, settori strategici dell’industria italiana non continuano forse a localizzarsi e a produrre proprio nell’Italia meridionale?

Si consideri il suo manifatturiero: acciaio, chimica di base, petrolio, energia, automotive, aerospazio, farmaceutica, macchine movimento terra, aerogeneratori, agroalimentare, cemento, legno-mobilio, tac, Ict, navalmeccanica, impiantistica. Big player mondiali, fra cui molti italiani, presenti sul territorio: Fiat Chrysler, Eni, Enel, Alenia Aermacchi, Barilla, Ferrero, Unilever, Coca Cola, Hitachi, Ilva, Bosch, Getrag, Edison, Adler, AgustaWestland, Salver, LyondellBasell, Jindal, Vestas, Cnh, Teleperformance, Transcom, Sanofi, Merck Serono, Novartis, Pfizer, STMicrolectronics, SSI, Heineken, Birra Peroni, Natuzzi, Cementir, Buzzi Unicem, Colacem, Italcementi.

Accanto ai big operano ben 27.186 Pmi locali da 10 a 249 addetti in tutti i settori produttivi con 681.725 occupati e un fatturato nel 2012 di 126,5 miliardi di euro (Fonte SRM-Confindustria).
Un dato per tutti: le tre più grandi fabbriche del Paese per numero di occupati diretti sono nel Sud, ovvero l’Ilva a Taranto (11.234), la Sata-Fiat Chrysler a Melfi (8.131) e la Sevel di Fiat-Peugeot (6.084) ad Atessa (CH), ognuno con filiere di indotto qualificato. Sono noti all’opinione pubblica questi dati?

Naturalmente delle presenze industriali citate andrebbero aggiornati investimenti realizzati o in corso, le dinamiche congiunturali, le esportazioni, i livelli occupazionali, le problematiche riguardanti il loro esercizio e le criticità che le riguardino. Ma questo approccio analitico ravvicinato solo la SRM del Banco di Napoli/Intesa San Paolo lo compie con le sue ricerche e qualche studioso di Università meridionali fra cui il sottoscritto.    

Ora, intendiamoci: nessuno vuole ignorare le dismissioni aziendali avvenute, minacciate, incombenti o rientrate, le crisi anche prolungate di molti stabilimenti, le riduzioni di loro personale, il ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali, le persistenti difficoltà dell’edilizia; e naturalmente nessuno vuole ignorare o sottovalutare le mobilitazioni sindacali e popolari per salvarli. Ma l’impegno di Governo e Istituzioni locali ha risolto, o sta almeno arginando costruttivamente, molte crisi aziendali, come documenta il sito del Mise.

Raffigurare il Sud come un grande cimitero industriale non solo non corrisponde in alcun modo alla realtà, ma rischia di produrre solo effetti negativi.

Ma scusate, se dopo 65 anni di interventi dello Stato e dell’Unione Europea nel Sud i risultati hanno accumulato solo macerie di fabbriche di ogni dimensione, ma perché Ue e Stato italiano dovrebbero continuare a destinare risorse a territori desolati e senza futuro? Meglio stanziarli per altre zone del Paese o per quegli Stati europei che invece stanno crescendo molto negli ultimi anni.

Poi scopriamo che il Mezzogiorno, nonostante tutto, continua a produrre un valore aggiunto dell’industria manifatturiera che supera quello di interi Stati europei come Finlandia, Romania, Danimarca, Portogallo, Grecia, Croazia, Slovenia e Bulgaria. E scopriamo che il Sud detiene tuttora il primato nazionale nella produzione di laminati piani e di etilene, nell’estrazione e raffinazione petrolifera, in quella di piombo e zinco, di auto e veicoli commerciali leggeri, di parte della loro componentistica con aziende leader nel mondo nel loro segmento merceologico.

E poi ancora in prodotti dell’industria molitoria e pastaria, mentre compete a livello mondiale nell’aerospaziale, nelle energie rinnovabili, nel materiale ferroviario, negli elettrodomestici, nel tessile-abbigliamento-calzaturiero, nell’Ict, nel farmaceutico e nella nautica da diporto.

Non bisognerebbe allora dare merito a tanti piccoli, medi e grandi industriali e a tanti dirigenti e addetti di industrie del Sud che ogni giorno lottano con successo sul mercato interno e su quelli esteri, invece di presentarli quasi come sopravvissuti di presunti tsunami industriali in un paesaggio lunare? Certe raffigurazioni dell’apparato manifatturiero del Mezzogiorno feriscono coloro che vi lavorano.

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Federico Pirro