Google mangia tutti: ecco perché è partita la guerra al gigante
Economia

Google mangia tutti: ecco perché è partita la guerra al gigante

È nel mirino dell’antitrust, il fisco lo insegue, i rivali lo criticano, gli editori chiedono una fetta dei suoi ricavi pubblicitari

Google è veloce, facile, gratuito, una specie di tuttofare nella vita quotidiana. Gestisce la posta, i documenti, fornisce indicazioni stradali. Archivia foto e video che poi possiamo condividere con il mondo ed è il cuore di smartphone e tavolette. Google è molto di più: è utilizzato, infatti, dal 91 per cento dei naviganti per effettuare ricerche e trovare informazioni. In pratica il mondo oggi è quello che Google ci presenta. Ma, come tutti i colossi che si rispettano, anche quello inventato da Sergei Brin e Larry Page nel 1996 comincia a mostrare il lato oscuro del suo strapotere.

La Microsoft, pochi giorni fa, ha attaccato i rivali di Google lanciando il sito Scroogled: gioco di parole che nasce dalla fusione di Google e Ebenezer Scrooge, il malvagio personaggio del racconto Canto di Natale di Charles Dickens. Il sito denuncia come nei primi posti dei risultati trovati da Google shopping siano presenti solo commercianti che hanno pagato di più e non quelli che offrono i prodotti migliori o più economici per i consumatori. È la prima volta che un attacco di questo genere viene sferrato a «Big G». Ma già tempo fa il settimanale tedesco Der Spiegel aveva dedicato un’inchiesta di copertina ai «metodi poco trasparenti di un gigante di internet». La domanda chiave è: con quale criterio il motore di ricerca trova le informazioni? Siamo sicuri che nella prima schermata appaiano i link più rilevanti, interessanti, congrui rispetto alla domanda? Brin e Page non intendono rivelare il loro algoritmo segreto, così come la Coca-Cola non svela la formula della bibita gassata, ma oggi dalla posizione nei risultati di Google può dipendere il successo di un’azienda. Tutti gli studi degli esperti concordano nel dire che ben pochi naviganti si spingono oltre la terza pagina di risultati forniti da Google. Come dire: chi finisce da pagina 4 in poi è nella terra di nessuno.

Anche per questo Google è entrata nel mirino di Joaquín Almunia, il commissario europeo per l’Antitrust: i risultati del motore di ricerca relativi al servizio mappe e al social network Google+ apparirebbero in risalto rispetto a quelli della concorrenza (tra cui la Microsoft). In assenza di un accordo tra i litiganti, la Ue potrebbe comminare a Google una multa salatissima: fino al 10 per cento del suo fatturato, che lo scorso anno è stato di 47 miliardi di dollari. Anche la Federal trade commission americana da due anni indaga sullo stesso tema e a breve potrebbe aprire una vertenza e costringere Google a pagare una forte multa.

Il gigante del web non è solo tra i due fuochi dell’antitrust. Ha pure il fiato del fisco sul collo. Google (ma anche Apple, Amazon, Microsoft) non porta negli Stati Uniti gli utili generati all’estero. In questo modo dribbla la tassa federale del 35 per cento. In Europa tutte le sue filiali girano gli utili a quella di Dublino, in Irlanda, dove la tassazione è leggera. Un escamotage, va precisato, legale; ma in un periodo di crisi economica potrebbe essere visto come un eldorado da legislatori che vogliono risanare bilanci nazionali. Il trucco è comunque malvisto dalla Guardia di finanza italiana che ha avviato una verifica fiscale su Google Italia. Poi c’è la vertenza con gli editori di tutto il mondo che, anche a fronte del drastico calo pubblicitario delle testate cartacee, chiedono a Google una ridistribuzione dei suoi ricavi pubblicitari.

Google News, uno dei servizi del motore di ricerca, vive grazie ai contenuti degli editori, che li producono con ingenti costi. Google aggrega link alle notizie di tutti gli organi di informazione online, quotidiani, settimanali, e fa traffico che favorisce la sua raccolta di pubblicità. Nel parlamento tedesco è al voto una legge (soprannominata Google tax) che potrebbe essere capostipite di norme simili in tutti i paesi del mondo: estenderebbe il copyright anche alle notizie pubblicate su Google news. Google afferma, a sua difesa, che sul servizio non si trova pubblicità e quindi non trae profitto dalle notizie. Anzi, sarebbero 4 miliardi al mese, secondo la sua versione, i clic di ritorno ai siti fonti di queste notizie. Insomma, grazie a Google i siti di informazione sarebbero molto seguiti. Mentre in Europa si cerca un compromesso, c’è chi di Google non vuole proprio più saperne: in Brasile gli editori sono usciti in blocco da Google news. E forse qualcun altro potrebbe seguirli.

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Guido Castellano