Giampiero-Pesenti
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Economia

Giampiero Pesenti, un imprenditore vero

Il ricordo del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, dell'ultimo grande protagonista della finanza e della industria italiana

’ho conosciuto a Bergamo che aveva già più di cinquant’anni e tutti lo consideravano una specie di morto che cammina. Anzi: il figlio di un morto che cammina. Il padre, Carlo Pesenti, era infatti ricoverato in una clinica di San Pellegrino per un infarto. Colpa della montagna di debiti che pesava sul suo cuore malandato, si mormorava in città. Una montagna che prima o poi sarebbe venuta giù di schianto e avrebbe spazzato via il vecchio e anche il figlio cinquantenne. A far ritenere che il crollo fosse imminente, in quell’estate del 1982, era la fine del Banco Ambrosiano e del suo presidente. Per anni Roberto Calvi era stato il padrone assoluto dell’istituto milanese e aveva finanziato Pesenti, ma il potere e gli intrighi del banchiere di Dio erano arrivati al capolinea. Inseguito dalle inchieste e dalle perdite che aveva occultato nelle pieghe dei bilanci e nascosto con un sistema di scatole cinesi estere, Calvi si era impiccato sotto un ponte di Londra e Pesenti, che a Calvi era legato a doppio filo dai finanziamenti e dalla vicepresidenza nel Banco, era in clinica. Che l’impero di cemento dell’imprenditore bergamasco fosse molto meno solido di quanto apparisse era cosa nota, perché le fondamenta poggiavano appunto su migliaia di miliardi che dovevano essere restituiti agli istituti di credito, Ambrosiano tra i primi. Così, se prima si diceva che a Bergamo non si muove foglia che Pesenti non voglia, in quei giorni dell’estate di quasi 40 anni fa si diceva che, morto Calvi, anche Pesenti avrebbe fatto la stessa fine.

In effetti, di lì a poco, l’uomo che aveva creato un colosso di cemento, banche, giornali e assicurazioni tirò le cuoia, ma non come Calvi. Il cuore cedette di schianto mentre era in viaggio e così, quel figlio cinquantenne, che il padre aveva oscurato fino a farlo ritenere da tutti un incapace, si ritrovò tra le mani una brutta grana. Ovvero grandi aziende, ma soprattutto grandi debiti.

Nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla sua capacità di uscirne vivo, senza fare fallimento. E invece Giampiero Pesenti, il figlio di un morto che camminava, riuscì nell’impresa. In poco tempo vendette quello che c’era da vendere, La Notte e Il Tempo, due giornali che servivano a tenere buoni rapporti con la politica, ma prosciugavano un fiume di soldi. Poi cedette la compagnia di assicurazione Ras ai tedeschi dell’Allianz, quindi la Banca provinciale lombarda all’Istituto San Paolo di Torino. In breve, quell’uomo taciturno, che per anni era stato rinchiuso in un ufficio dell’Italcementi con la qualifica di vicedirettore di una delle società del gruppo, cioè confinato nelle retrovie, risanò l’impero. Lo fece diventare più piccolo, ma più solido e, una volta ridotti i debiti, si comprò un concorrente francese che era grande il doppio. Insomma, l’uomo su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo e che tutti consideravano il prossimo fallito, di soldi ne fece molti e riuscì nell’impresa.

Perché racconto questa storia oggi, a tanti anni di distanza? Perché Giampiero Pesenti è morto a 88 anni la scorsa settimana e con lui se n’è andato l’ultimo dei protagonisti della finanza e dell’industria italiana. Dopo aver risanato l’impero, era stato accolto nel salotto buono dell’imprenditoria italiana, un salotto che oggi non esiste più. Agnelli, Lucchini, Pirelli, Pesenti, Orlando, cioè i re dell’auto, dell’acciaio, degli pneumatici, del cemento e del rame: un mondo finito. Quando ho conosciuto Pesenti credo che non avesse mai dato un’intervista in vita sua e probabilmente non ne diede altre. Era talmente schivo e riservato che non sapeva neppure da dove cominciare. Diffidava dei giornalisti al punto che registrò il colloquio con due magnetofoni giganti: la prima bobina la impacchettò e, dopo aver apposto i sigilli, mi fece firmare il plico. «Questa»,  mi disse, «la mettiamo in cassaforte, in caso di contestazioni». E l’altra?, chiesi io incuriosito, «Questa la porto a casa e stasera la riascolto con mia moglie».

Era impacciato davanti alle domande e a guardarlo si capiva che non aveva il fascino dell’Avvocato o la simpatia e il carisma di Luigi Lucchini. Tuttavia era un grande imprenditore, uno di quelli che oggi ci mancano per far tornare grande l’Italia. Essere rimasto fino alla soglia della pensione nelle retrovie dove lo aveva confinato il padre, gli fece capire tante cose. Ma soprattutto gli fece comprendere che il testimone del comando bisogna passarlo ai figli prima di essere arrivati alla fine, affinché essi siano in grado di usarlo. 

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Maurizio Belpietro