Fisco e classe media: 11° non guadagnare
Economia

Fisco e classe media: 11° non guadagnare

In Italia 150 mila euro all’anno lordi sono il confine con la ricchezza. Un reddito da colpire, perché essere benestanti è peggio che essere miliardari

L’ultimo tentativo l’hanno fatto il 24 ottobre, quando la strana maggioranza che sostiene il governo Monti ha tentato, con un emendamento alla legge di stabilità, di imporre a chi ha un reddito superiore a 150 mila euro un altro contributo straordinario del 3 per cento a favore degli esodati. Dopo le proteste piovute da tutte le parti, appare ormai certo che la commissione Bilancio della Camera non approverà il provvedimento adottato dalla commissione Lavoro contro il parere del governo. Perché anche fra i politici, in un sussulto di saggezza, si è diffusa la convinzione del vicepresidente di Confindustria Aurelio Regina: che si tratti di una misura «iniqua» che colpisce «l’unica fascia di popolazione che spende, minacciando così ulteriormente i consumi», già calati del 3,2 per cento quest’anno.

Insomma, ancora una volta si va a colpire quei 151 mila italiani che già pagano un mare di tasse, perché dichiarano un reddito superiore a 150 mila euro. Si tratta dello 0,36 per cento dei 41 milioni 547 mila 228 contribuenti; uno 0,36 per cento che,  mentre dilagano le cifre sull’evasione fiscale che sopravvive a qualsiasi stagione politica, si sente tartassato. Ormai in questo Paese sembra che guadagnare, e dichiararlo al fisco, sia quasi un peccato del quale rendere conto ogni volta che il governo deve tappare un buco di bilancio.

Anche perché, quando serve un contributo straordinario, come è accaduto a fine 2011 per i redditi sopra i 300 mila euro e poi per i contributi di solidarietà chiesti a pensionati e dipendenti pubblici annullati il 23 ottobre dalla Corte costituzionale, è sempre lì che si va a pescare. Mentre, quando si parla di possibili detrazioni per abbattere l’imponibile, arriva al massimo a beneficiarne chi dichiara 50-60 mila euro.

Ma a cosa corrisponde un reddito di 150 mila euro lordi? Grosso modo a un mensile di 6.500 euro netti. Non è poco, anzi è una bella cifra, come mostrano le critiche che hanno travolto Mario Tassone dell’Udc quando ha dichiarato che «dopo 20 anni in Parlamento andrà in pensione con solo 6.800 euro al mese». Parole che dal punto di vista di un minatore del Sulcis, che già guadagna poco e non ha certezza del suo futuro, suonano come un insulto. Tuttavia, il concetto di ricchezza in questi anni è cambiato. Secondo l’Istat, la spesa media mensile di una famiglia formata da una coppia con due figli è di 3.100 euro, quindi ne resterebbero più di 3 mila per condurre una vita agiata.

Però è anche vero che un economista di sinistra come il senatore Nicola Rossi, che abbandonato il Pd ora fa parte del gruppo misto, ha sostenuto che una famiglia può essere definita «opulenta quando ha un livello di consumi pari o superiore di tre volte a quello di una famiglia media». Quindi sarebbe ricco chi può spendere più di 9 mila euro al mese per i suoi consumi. Chi ha un reddito mensile da 5-6 mila euro è solo un benestante.

Perché dunque lo Stato si accanisce sempre su quella fascia? «Perché colpisce chi non può scappare: dove vanno, se fanno i dirigenti o i professionisti?» risponde Giulio Sapelli, ordinario di storia economica alla Statale di Milano. «Invece la grande ricchezza si sposta, come accade in Francia, dove François Hollande ha messo il 75 per cento di tasse sui redditi sopra il milione. Tutti fuggono a Bruxelles, dove i prezzi delle case sono andati alle stelle».

Strano paese l’Italia, dove la gente si arrabbia perché Tassone va in pensione con più di 6 mila euro al mese mentre non dice nulla contro il calciatore di serie A che li spende in un pomeriggio per fare un giro a Capri con il suo motoscafo. «L’italiano non protesta mai contro i veri ricchi, che rappresentano un mito a cui ispirarsi» sostiene Sapelli «ma non ama i benestanti. Piuttosto li invidia, perché pensa che abbiano raggiunto quel successo per fortuna o per raccomandazioni.

In Francia o in Germania fa specie un dirigente che guadagni 1.000 volte il salario del suo operaio, da noi abbiamo visto persone che, dopo avere ridotto sul lastrico grandi aziende, hanno ricevuto liquidazioni stratosferiche e nessuno ha protestato, neanche i sindacati». I benestanti oggi «hanno paura di diventare meno agiati» conferma Sapelli «ma non dobbiamo dimenticare che la nostra borghesia è una classe sovversiva. Aveva ragione Antonio Gramsci, il Risorgimento l’hanno fatto i nobili e il popolino. La borghesia italiana se n’è sempre infischiata dello Stato, oggi comincia a temere per i propri figli».

Insomma, l’orizzonte è grigio per la classe medio-alta: ne è consapevole anche un uomo di sinistra come il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero, però convinto che «sia più colpito il ceto medio-basso. Bisogna ricostruire i redditi di tutti, perché dal 1980 a oggi 10 punti del pil sono stati spostati da salari e pensioni verso rendite e profitti: 150 miliardi di euro che in 30 anni sono passati da sotto a sopra. Ed è lì che nasce la crisi,
infatti la Fiat vende il 25 per cento di auto in meno, mentre la Ferrari prospera».

Il problema, per il segretario del Prc, «è la lotta all’evasione e all’elusione fiscale: chi paga le tasse le paga tutte e chi non le paga fa il nababbo. Il 96 per cento delle entrate fiscali deriva da quattro delle 10 mila norme in vigore, mentre le altre 9.996 servono solo a fornire gli strumenti per aggirare il fisco.Tutti i redditi vanno tassati allo stesso modo: è assurdo che Sergio Marchionne, che incassa qualche milione di euro, paghi il 20 per cento di tassa forfettario su quasi tutti i suoi guadagni perché sono rendite di azioni, mentre i suoi dipendenti pagano il 40 per cento su salari da 1.500 euro al mese». Ferrero propone una «tassa sui patrimoni da 800 mila euro in su e una tassazione progressiva sui redditi con aliquote dal 50 per cento sopra i 100 mila euro, sino al 75 per cento oltre i 500 mila. Perché» dice «la crisi nasce dalla cattiva distribuzione del reddito».

«Le riforme sociali non sono mai nate da politiche fiscali» replica Giulio Sapelli. «Se un rivoluzionario come Ferrero lo pensa, non è più tempo di rivoluzioni. I problemi si risolvono con la democrazia economica, con le riforme di struttura. Non bisogna tagliare la spesa pubblica, si deve tagliare lo spreco e ridurre le tasse imposte da questo Stato sempre più predatore e inefficiente. Il governo Monti non è formato da tecnici, ma da incompetenti dominati dalla burocrazia. Se la lotta all’evasione fosse davvero ben fatta, i 150 mila bombardati dal fisco sarebbero almeno 1 milione».

Viene da pensare alle parole del ministro Elsa Fornero, che a Torino ha chiesto di allontanare i giornalisti perché altrimenti avrebbe dovuto pensare prima di parlare. Chissà, se ci fosse stato qualche giornalista a Palazzo Chigi quando ha deciso la norma sugli esodati, forse ci sarebbe stato qualche contributo straordinario in meno.

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Damiano Iovino