Evasione fiscale: perché Credit Suisse ha ammesso la sua colpa
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Economia

Evasione fiscale: perché Credit Suisse ha ammesso la sua colpa

Per decenni ha conspevolmente aiutato i clienti a evadere il fisco americano. Ora accetta di pagare una multa di 2,6 miliardi: un salasso sopportabile per il budget del grande istituto sveizzero

Le grandi banche d’affari tendono a non dichiararsi mai colpevoli davanti a un giudice, specialmente se l’accusa è di avere aiutato migliaia di clienti a evadere il fisco. L’ultimo caso di ammissione delle proprie responsabilità da parte di un grande player finanziario risale a vent’anni fa, per il resto si trovano soltanto patteggiamenti, accordi, multe e obliqui accomodamenti con la giustizia. Credit Suisse, dunque, ha fatto un gesto senza precedenti, o quasi. Ammettere di avere attivamente tramato per aggirare la rete del fisco americano, sporcandosi per sempre fedina penale e immagine, non è cosa da poco, e i 2,6 miliardi di dollari di multa ne sono la testimonianza, questo almeno è il messaggio che la banca svizzera – non certo la prima ad essere accusata di reati del genere – vuol far passare. Perché sotto la superficie, quello di Credit Suisse è un caso esemplare di accordo fra banchieri e giudici che accontenta un po’ tutti.

I reati contestati alla banca sono gravissimi, tanto da meritare la revoca della licenza bancaria e da costare facilmente la rimozione immediata del management da parte degli azionisti. Peraltro, la decisione sulla licenza bancaria spetta al dipartimento dei servizi finanziari dello stato di New York, che ha deciso di non procedere a una punzione che distruggerebbe la banca. La decisione è stata probabilmente agevolata anche dai 700 milioni di dollari della maximulta che il dipartimento dei servizi finanziari incassa dalla maximulta. Con l’ammissione di colpa e il pagamento della multa la banca scongiura invece le eventualità più disastrose, continuando a operare sul mercato. Certo, 2,6 miliardi di dollari non sono pochi, ma rispetto al budget di Credit Suisse si tratta di una cifra sopportabile. La banca andrà in sofferenza per un po’, ci saranno turbolenze interne e forse anche qualche taglio di teste – anche se la posizione del ceo, Brady Dougan, è salda – e poi ritornerà al business as usual, con il valore aggiunto della reputazione: la banca potrà dire di essere stata l’unica a redimersi pubblicamente da un’attività illecita ampiamente praticata dai colleghi di Wall Street.

Allo stesso tempo, l’accordo fa comodo anche ai procuratori, che possono esibire una grande vittoria contro i banchieri di Wall Street. Il procuratore generale degli Stati Uniti, Eric Holder, dice che il caso Credit Suisse dimostra che “nessuno è al di sopra della legge”. Paradossalmente, il caso dimostra il contrario. Nella storia della crisi si è passati dal “too big to fail” al “too big to jail”, la norma non scritta per cui, a conti fatti, nessun istituto finanziario è stato smembrato dalle inchieste post-crisi e nessun banchiere di primo piano è stato messo in prigione, per il timore che scosse troppo forti facessero crollare – di nuovo – l’intero sistema. La pena severa ma tutt’altro che devastante comminata a Credit Suisse mostra che le procure, assetate del sangue dei banchieri quanto basta per compiacere l’opinione pubblica, nel momento di assaltare la preda si sono distratte un attimo, e la preda se n’è andata con una concordata ammissione di colpevolezza e una multa della quale si dimenticherà in fretta.

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Mattia Ferraresi