Erasmus senza soldi: ma la cultura fa bene all'economia
Economia

Erasmus senza soldi: ma la cultura fa bene all'economia

L'investimento in cultura è fondamentale per rilanciare Pil e occupazione

Abbiamo già scritto che l'Europa è rimasta senza soldi, e che molto probabilmente il programma Erasmus chiuderà i battenti. Impedendo così a milioni di giovani studenti del Vecchio Continente di continuare a usufruire degli ambitissimi contributi finanziari che dal 1987 hanno permesso a molti loro colleghi più anziani, tra cui trecentomila italiani, di frequentare corsi universitari in giro per il mondo.

L'iniziativa più popolare e certamente una di quelle di maggior successo dell'Unione meritava di festeggiare in ben altro modo i suoi primi venticinque anni. Perché se è vero che l'Erasmus fino a oggi ha permesso a due milioni di giovani europei di conoscersi, di incontrarsi, di interagire, di scambiarsi idee e, non meno importante, di scoprire come si vive negli altri paesi del mondo, combattendo falsi miti e pregiudizi, non va dimenticato che questo intenso scambio di esperienze e informazioni ha avuto altre conseguenze molto importanti. Ha spinto i paesi dell'Unione a investire in cultura, facendo crescere le rispettive economie.

COME SI CALCOLA IL POTENZIALE ECONOMICO DELLA CULTURA

Non sono pochi gli economisti convinti che la cultura sia qualcosa di ben più dinamico di un patrimonio artistico che molte nazioni si limitano a pubblicizzare per attirare turisti e poco altro. Con un atteggiamento che ha condotto molte di loro, Italia compresa, a soffrire di una pericolosissima "paralisi creativa". Quando basterebbe invece un po' di creatività per rilanciare la produzione culturale "in chiave contemporanea", e vederne in tempi rapidissimi gli effetti positivi tanto sul piano economico quanto su quello sociale.

Eppure, lo scetticismo riguardo alle valutazioni sul potenziale economico della cultura resta molto, anzi troppo, diffuso. Anche a livello dirigenziale, visto il modo in cui viene in genere gestita la politica culturale. Come se tutti i dati e le ricerche che confermano come la cultura possa stimolare occupazione e prodotto interno lordo fossero totalmente privi di valore e credibilità. Al punto da non riuscire a convincere nessuno a trasformarla nella colonna portante di un nuovo modello di crescita.

Relativamente al caso italiano, un rapporto del 2012 ha messo in luce che l'industria culturale frutta al Paese il 5,4% del Pil, equivalente a quasi 76 miliardi di euro, e dà lavoro a un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,6% del totale degli occupati. Numeri pari niente meno che al doppio della somma del comparto della finanza e delle assicurazioni. Non solo: se si prende in considerazione l'intera filiera e non solo le imprese che producono cultura in senso stretto, e quindi arte, spettacoli, ma anche moda, intrattenimento e l'indotto delle stesse, il valore aggiunto passa dal 5,4 al 15% del totale nazionale, e il numero di occupati raggiunge i quattro milioni e mezzo, il 18% del totale.

Alla luce di questi dati non stupisce constatare che il resto dell'Europa vorrebbe guardare proprio all'Italia per trovare l'ispirazione per mettere a punto politiche culturali in grado di potenziare un settore che ha già abbondantemente dimostrato le proprie potenzialità. E invece, come conferma la scelta per l'Erasmus, le spese per la cultura finiscono con l'essere sempre le prime ad essere tagliate. Perché i politici sono convinti che se ne possa fare facilmente a meno. Senza rendersi conto che questa loro ottusità danneggia non solo lo sviluppo sociale del paese, ma anche quello economico e finanziario.

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