Economia e moderni economisti: salvateci!
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Economia e moderni economisti: salvateci!

La disciplina che dovrebbe rendere migliore e più giusta la società ha perduto la sua funzione di scienza sociale. Così ha prodotto i disastri che oggi vediamo

di Fabrizio Pezzani*

Ormai i loro nomi non sono più sui giornali: Eugene F. Fama, Lars Peter Hansen e Robert J. Shiller. Ma solo poche settimane fa sono stati premiati    con il «Nobel per l’economia». Anche quest’anno il riconoscimento è andato a studiosi statunitensi che si occupano dei mercati finanziari e della loro efficienza. Non è un dettaglio il fatto che, tra i possibili vincitori, erano stati indicati soltanto economisti americani con forte propensione alle scienze quantitative.

Ora, dopo che le cronache hanno esaurito la loro carica trionfalistica sui vincitori, ci si deve però domandare se gli Usa, con un modello socioculturale al collasso, siano da evidenziare come esempio per gli studiosi di economia. La scelta dei premiati solleva infatti più di un dubbio sull’opportunità e sulla coerenza storica di un simile riconoscimento che dovrebbe essere finalizzato a rendere migliore e più giusta la società.

L’economia non era tra le scienze indicate da Alfred Nobel come destinatarie del premio, infatti il premio venne istituito nel 1969 e finanziato dalla Banca di Svezia. La finalità del Nobel, secondo le intenzioni del fondatore, era di stimolare la ricerca nei campi che illuminano e aiutano l’uomo «a vivere degnamente», ma non sembra che i Nobel assegnati alle scienze economiche negli ultimi 20 anni (almeno 15 a matematici puri) abbiano assolto a tale scopo. La finanziarizzazione dell’economia reale, riconosciuta come verità incontrovertibile dai Nobel, ha avuto la massima espressione negli Stati Uniti e ha creato una società con una concentrazione di ricchezza senza pari nella storia e con patologie da Terzo mondo.

L’economia nasce come scienza sociale e morale e la sua etimologia deriva dal greco antico «oikia nomos», cioè l’arte di guidare e gestire la casa, la società in senso più ampio, la polis. Il grande John Maynard Keynes era uno scienziato sociale, ma quest’indirizzo di studi si è ben presto abbandonato a favore di un approccio quantitativo. Così l’economia si è tramutata da scienza strumentale in scienza morale (cioè finalistica) ed è stata studiata sempre più con l’abito mentale di chi cura le scienze positive, cioè solo ciò che è misurabile, ipotesi che in una scienza sociale rappresenta una fatale limitazione. L’economia come sapere morale diventa una verità incontrovertibile che può essere studiata come scienza esatta e retta da un principio di razionalità assoluta. La società dell’uomo diventa secondaria nello studio e assume la funzione di variabile dipendente.

Il primo a mettere in guardia da tale approccio è stato Friedrich von Hayeck, che nel suo discorso di accettazione del Nobel nel 1974 dirà: «Abbiamo pochi motivi per essere orgogliosi. Come professione abbiamo combinato un gran pasticcio. Mi pare che questo fallimento degli economisti nel guidare positivamente la politica sia strettamente collegato alla loro tendenza a imitare quanto più possibile le procedure delle scienze fisiche (...) un tentativo che nel nostro campo può condurre a un errore fatale». I suoi ammonimenti non sono valsi a nulla perché troppo grandi erano gli interessi in gioco che hanno finito per costruire un sistema di relazioni tossiche tra finanza, politica e accademia. Anche Joseph Stiglitz recentemente ha sottolineato come la teoria delle aspettative razionali sia stata un flop e metta a rischio non solo la credibilità della professione o dei policy maker ma anche la stabilità e la prosperità delle nostre società e delle nostre economie.

I fatti hanno confermato tutte le preoccupazioni per tempo sollevate. L’applicazione dell’ingegneria finanziaria ha creato prodotti disastrosi estendendosi al di là della sua controllabilità, e il mondo della finanza ha assunto una dimensione mitologica, cioè una sorta di favola che si studia come fosse esistente ma si allontana sempre più dalla realtà. I mercati non sono razionali perché la natura dell’uomo che vi opera ha una dimensione emozionale che condiziona sempre le sue scelte. Paradossalmente i Nobel di quest’anno considerano l’ipotesi di comportamenti non sempre razionali (Shiller), ma allora come si giustifica quello assegnato a Robert Lucas nel 1995 («i mercati sono razionali e non sbagliano mai nell’allocazione delle risorse»)? È realistica l’ipotesi che vi sia una simmetria informativa individuabile nel mito della concorrenza perfetta che non esiste nell’attuale oligopolio finanziario? Ancora: a parità di informazioni gli operatori hanno tutti gli stessi identici interessi? Il mito comincia a mostrare le crepe e la realtà a lungo ignorata fa emergere i limiti in tutta la loro evidenza.

Purtroppo i Nobel sono ancora premi discutibili, non coerenti con i fatti della storia, ma forse trovano la loro motivazione nella necessità di legittimare studi e istituzioni che nel confronto con la storia si stanno giocando una partita pericolosa per tutti noi . È ora che l’economia torni a prendere contatto con la sua natura di scienza sociale e morale che si avvale però di una strumentazione quantitativa come mezzo, non come fine, e riportare così l’uomo e la società al centro del nostro interesse.
*ordinario di programmazione e controllo, Università Bocconi di Milano

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