Disoccupazione giovanile: la crescita
Economia

Disoccupazione giovanile: la crescita

La serie storica dei dati sugli occupati dal 2004 al 2013 rivela che gli under 34 sono gli unici a soffrire

L’Istat ha comunicato che a settembre del 2013 i disoccupati in Italia erano 3 milioni 194mila e che sono aumentati di 29mila unità rispetto ad agosto e di 391mila rispetto a settembre del 2012. Il dibattito si è concentrato sul fatto che a soffrire di più della mancanza di lavoro siano i giovani compresi nella fascia di età 15-24 anni. Ed è vero, ma è anche vero che non è vero che il lavoro manca per tutti.

Il grafico qui sopra indica il numero delle persone che hanno un lavoro divise per classi d’età e quello che emerge è che le uniche classi di età che hanno perso posti di lavoro sono quelle che comprendono le persone tra i 15 e i 24 anni e quelle tra i 25 e i 34 anni. E mentre la classe d’età 35-44 anni risulta stabile, quelle superiori hanno, tra il 2004 e il secondo trimestre del 2013, aumentato l’occupazione. Le persone comprese tra i 45 e i 54 anni che avevano un lavoro nel 2004 erano 5,2 milioni e sono passate a 6,5 nel secondo trimestre del 2013. Quelle tra i 55 e i 64 anni che lavoravano nel 2004 erano 2,1 milioni e ora sono 3,1 mentre gli over 65 sono passati da 344mila a 439mila.

Per i giovani la storia è diversa: quelli tra i 15 e i 24 anni sono passati da 1,6 milioni a 1 milione con una perdita di 600mila occupati e quelli tra i 25 e i 34 anni sono passati dai 6 milioni del 2004 a 4,3 mentre è praticamente stabile l’occupazione delle persone comprese tra i 35 e i 44 anni: da 6 milioni 979mila persone del 2004 a 6 milioni 915mila del secondo trimestre del 2013.

Come mai tutto questo? Secondo il giuslavorista Michele Tiraboschi «questo è l’effetto della fine dei privilegi degli anni scorsi» quando le imprese potevano prepensionare i dipendenti in esubero usando i soldi pubblici. Poco dopo l’inzio degli anni 2000 non è più possibile: le aziende che vogliono prepensionare devono pagare i contributi figurativi che mancano al raggiungimento dell’età della pensione. Da qui il blocco delle uscite dal ciclo produttivo delle persone più adulte.

Volendo riformare il sistema italiano del welfare, potrebbe tornare la tentazione di reintrodurre la possibilità di spendere soldi pubblici per permettere ai 50enni di andare in pensione, nella vana speranza che per ogni 50enne che se ne va un 20enne entra in azienda. Non è così, ovviamente, perché i posti di lavoro si creano con la crescita, non con i prepensionamenti facili che hanno il solo effetto di appesantire, più di quanto non lo siano già, i conti pubblici. 

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Marco Cobianchi

Sono nato, del tutto casualmente, a Milano, ma a 3 anni sono tornato a casa, tra Rimini e Forlì e a 6 avevo già deciso che avrei fatto il giornalista. Ho scritto un po' di libri di economia tra i quali Bluff (Orme, 2009),  Mani Bucate (Chiarelettere 2011), Nati corrotti (Chiarelettere, 2012) e, l'ultimo, American Dream-Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat (Chiarelettere, 2014), un'inchiesta sugli ultimi 10 anni della casa torinese. Nel 2012 ho ideato e condotto su Rai2 Num3r1, la prima trasmissione tv basata sul data journalism applicato ai temi di economia. Penso che nei testi dei Nomadi, di Guccini e di Bennato ci sia la summa filosofico-esistenziale dell'homo erectus. Leggo solo saggi perché i romanzi sono frutto della fantasia e la poesia, tranne quella immortale di Leopardi, mi annoia da morire. Sono sposato e, grazie alla fattiva collaborazione di mia moglie, sono papà di Valeria e Nicolò secondo i quali, a 47 anni, uno è già old economy.

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