Decreto del fare, 80 articoli e una grande assenza
Economia

Decreto del fare, 80 articoli e una grande assenza

Il pacchetto di riforme contiene molte novità positive che in parte, però, non sono incisive. Ma manca del tutto la riduzione della spesa pubblica

Enrico il temporeggiatore non rinnega la sua strategia dei piccoli passi. Rinvio dell'Imu sulla prima casa, rinvio (forse) dell'aumento Iva, sabato scorso “decreto del fare”, mercoledì prossimo semplificazioni, venerdì occupazione giovanile, intanto si arriva al consiglio europeo del 27 e 28 giugno e si vede se la Ue ci concede di muovere gli investimenti in modo più significativo. Anche questa è una scelta, in fondo così i romani sconfissero Annibale, mentre l’impazienza del Senato portò alla tragedia di Canne. Ma Quinto Fabio Massimo vinse perché seppe riorganizzare le forze in attesa di un grande leader e un solido consenso. È a questo che punta Letta?

Gli 80 provvedimenti varati dal consiglio dei ministri servono a creare le premesse per recuperare le truppe esauste dell'economia italiana. Ci riusciranno? Così come sono no, hanno bisogno di essere accompagnati da una politica economica più robusta. Il pacchetto contiene molte cose positive, le più importanti però sono ancora messaggi. Come il fisco che concede più tempo a chi non può pagare, mentre tutti sanno che bisognerebbe mettere mano a una riforma organica. O l’alleggerimento della bolletta elettrica quando occorre tagliare le tariffe del 30% per allinearci agli altri paesi europei. O, ancora, il nuovo rapporto con la pubblica amministrazione vero baluardo di ogni conservazione che andrebbe rovesciata come un guanto, perché non c’è solo un problema di eccesso di regole e farraginosa gestione, ma di impostazione di fondo, di filosofia.

Una delle lacune maggiori riguarda il credito. Un accesso più facile per le piccole e medie imprese che investono in nuovi macchinari, anche con il contributo della Cassa depositi e prestiti, è una mossa interessante. Tuttavia, il Fondo manca di fondi (e non è solo un bisticcio di parole): ci vogliono tra i 2 e i 3 miliardi che verranno stanziati solo con la finanziaria (chiamata ora legge di stabilità). E bisogna chiedersi se questo è tutto quello che il governo intende fare contro il credit crunch, mentre da tempo circolano proposte interessanti per intervenire sulle banche, estraendo dai bilanci crediti ormai inesigibili e partite incagliate per sempre, in cambio di una sostanziosa apertura dei rubinetti a famiglie e imprese.

Una verifica del “fare” molto importante, e non solo simbolica, riguarda le opere pubbliche. Il governo ha messo in cantiere tre miliardi entro l’anno. E non sono piccole cose: si tratta di completare la metropolitana di Roma, la tangenziale milanese, l’autostrada Ragusa-Catania e molte altre utilissime incompiute. Poi ci sono le due bandiere: la Tav e il ponte sullo stretto di Messina. Qui l’intera maggioranza dovrà dar prova di forza politica e l’esecutivo di grande determinazione amministrativa. La coalizione si gioca la faccia, ne va della sua credibilità. È una operazione ad alto rischio perché trova di fronte l’opposizione dura dei grillini e la divisione del Pd.

Non per giocare al rialzo, ma certo colpisce che non ci sia nulla per ridurre davvero la spesa pubblica corrente. Ha ragione la lodata (ma poco ascoltata) ditta Alesina&Giavazzi: su 351 miliardi al netto degli interessi e delle prestazioni sociali, erogati ogni anno dallo stato, possibile che non si possa risparmiare proprio niente? Gli 8 miliardi che servono per Imu sulla prima casa e per non aumentare l’Iva al 22%, sono una piccola cosa nel grande calderone, appena il 2,2 per cento. Diventa quasi incredibile sostenere che sarebbero tagli “di estrema severità” come ha detto il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni. I due economisti chiedono “un taglio forte della spesa”. Ma almeno un taglio pur che sia, anche debole?

Tagliare fa male, forse ancor peggio che tassare. Ma lo stato italiano è un flaccido corpaccione incapace di muoversi, vorace solo per alimentare la propria sopravvivenza: farlo dimagrire è inevitabile. E, esattamente come nelle diete alimentari, quando si comincia bisogna arrivare in fondo. Che fine ha fatto, invece, la spending review? Perché non sono stati toccati i contributi alle imprese ai quali, almeno a parole, anche la Confindustria ha ormai rinunciato? Non è che sotto l’etichetta di una “nuova politica industriale” spunta dalla finestra l’assistenzialismo che si voleva far uscire dalla porta? La risposta non c’è nel “decreto del fare”. Essendo questo governo un grande lavoro in corso, bisogna aspettare altre lenzuolate per valutare la coerenza e l’efficacia della politica economica. Ma intanto, si può cominciare a colmare i vuoti su fisco, spesa e credito che appaiono già evidenti.
 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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