Crisi economica: perché tra Germania e Italia vincerà la BCE
Tra rigore e rispetto delle regole e flessibilità e meno dogmatismo avranno la meglio realismo e concretezza
La guerra silenziosa che si sta combattendo fra Berlino e Roma alla fine sarà vinta da Francoforte. Su un fronte ci sono rigore e rispetto delle regole. Sull’altro ci sono maggiore flessibilità e meno dogmatismo. In mezzo, però, ci sono realismo e concretezza. Ed è quest’ultimo versante, rappresentato dalla Banca centrale europea, che avrà la meglio.
Il realismo porta a ripensare un’eurozona nata imperfetta e peggiorata per via di troppi errori, politici e non. La concretezza induce invece a preparare nuovamente un pannicello caldo in modo da placare le eventuali piaghe scaturite dalla furia dei mercati finanziari.
Da quando Matteo Renzi è arrivato a Palazzo Chigi, era il 22 febbraio scorso, la discussione sulla politica fiscale in ambito Ue è stata quasi a senso unico. "C’è bisogno di maggiore flessibilità sulle regole”, disse l’ex sindaco di Firenze. Secca la risposta della Germania: "Le regole esistenti garantiscono già un ampio margine di flessibilità”. Difficile conciliare queste due posizioni. Berlino chiede un do ut des. Riforme strutturali promesse in cambio di più margini di spesa. In altre parole, il vecchio concetto dei compiti a casa. L’Italia non ci sta, fa la voce grossa, la Germania la fa ancora più grossa e tutto resta com’era prima.
Ma, nel mentre, la congiuntura dell’area euro peggiora. Dalla paura dello spread, visibile e pirotecnica, si passa a un altro spauracchio, più effimero e più pericolo. La deflazione, ovvero il calo generalizzato dei prezzi al consumo, riempie le pagine dei quotidiani e mette in difficoltà pure la Bce e il suo mandato, la stabilità dei prezzi.
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Urge fare qualcosa, dato che i flussi di capitale esteri che avevano caratterizzato la storia dell’area euro nella prima parte dell’anno si stanno inaridendo. La domanda domestica nei Paesi periferici è ancora debole, i canali di accesso al credito sempre ridotti al lumicino, complice il deleveraging bancario. Mario Draghi gioca la sua carta: taglio dei tassi d’interesse principali, nuove aste di rifinanziamento a lungo termine, inizio di studio sulla possibilità di acquistare titoli sul mercato (ovvero una forma di Quantitative Easing, o QE). Nemmeno questo potrebbe bastare, però. Nelle settimane successive all’annuncio delle nuove misure di politica monetaria, Draghi ricorda ai governi che senza il loro supporto e i loro sforzi non si potrà uscire dalla palude.
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L’ex governatore della Banca d’Italia si conferma uno dei banchieri centrali più abili nella dialettica politica, anche se non è questo il suo ruolo. De facto, chiede anche lui un do ut des. La Bce continuerà, nei limiti del suo mandato, a preservare l’integrità dell’area euro, ma anche i singoli Stati membri devono impegnarsi. L’Italia sotto il profilo delle riforme, la Germania sotto quello di una maggiore collaborazione. Quando dal simposio economico di Jackson Hole Mario Draghi ha parlato di "fiscal stance aggregata" a Berlino hanno storto il naso. Il discorso era innovativo per molti versi, ma il più importante riguarda il coordinamento delle politiche fiscali all’interno della zona euro. Se un Paese è in surplus e ha spazio per un’espansione, sarebbe meglio che lo facesse, se ciò è funzionale al sostentamento dei Paesi che invece sono in deficit, non hanno margini operativi e devono procedere con il consolidamento fiscale.
In pratica, una sorta di solidarietà, la quale giova a tutti. Ai Paesi deboli, perché così possono avere un supporto dai partner commerciali. Ai Paesi forti, perché così non vengono urtati nel medio periodo dalla debolezza degli altri. Le parole di Draghi hanno fatto impensierire Berlino. Due i motivi. Il primo è che la Bce non si dovrebbe occupare di politica fiscale, che resta prerogativa (per ora) dei governi nazionali. Il secondo è che la Germania non vuole intavolare alcuna discussione su concessioni a Paesi che non hanno ancora portato a termine le misure per le quali si sono impegnate negli anni passati.
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Draghi, tuttavia, sa che qualcuno deve ricordare ai governi qual è il loro ruolo e quali rischi si stanno correndo. E le sue bacchettate sono arrivate anche a Roma. Nell’ultimo discorso dopo la riunione del Consiglio direttivo dell’Eurotower, il banchiere centrale ha ricordato all’Italia che "l’incertezza generale che la mancanza di riforme strutturali produce è un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti". Altro che flessibilità. Il QE di cui si sta discutendo è uno strumento che può aiutare il sistema finanziario a migliorare i canali del credito, e quindi rilanciare la domanda nei Paesi in qui questa è debole. Può essere utile a prendere tempo, ma nel lungo periodo il rischio che si corre è che non si riesca a creare un’area economica virtuosa. Anche Draghi è consapevole che l’eurozona che soffre per la deflazione e per la riduzione dell’appeal presso gli investitori istituzionali ha bisogno di trovare un compromesso fra rigore e flessibilità. Tutto però passa dalle riforme. Prima arrivano, prima è possibile invertire la rotta. Draghi, all’interno dei confini posti dal suo mandato, sta facendo quanto possibile per stabilizzare l’instabile. Ma l’ultimo sforzo, quello decisivo, spetta ai governi.