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Crac bancari; nessuno li può giudicare

I processi per i crac finanziari rischiano di finire in nulla di fatto per lentezze e prescrizioni. Gli imputati ringraziano, e i risparmiatori truffati?

Negli Stati Uniti processano i banchieri, non le banche. In Italia, si fa il contrario. Ogni volta che c’è uno scandalo che coinvolge decine di migliaia di correntisti e di risparmiatori, si alza il solito polverone contro gli istituti di credito, come se fosse possibile farne a meno senza ritornare all’Età della pietra, mentre i banchieri finiscono per farla franca.

Dall’inizio della crisi del 2012, il sistema che il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si è ostinato per anni a definire «solido», ha regalato solo amarezze. Oltre al continuo salasso di soldi pubblici e privati per tenere in vita Mps, decine di miliardi di euro sono andati in fumo in Carige, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare dell’Etruria e le altre casse del Centro Italia. E dei vari banchieri finiti sotto inchiesta, da Gianni Zonin a Vincenzo Consoli, passando per Giuseppe Mussari, quello che sembrava messo peggio di tutti, ovvero Giovanni Berneschi, per oltre un ventennio padre-padrone di Carige, lo scorso 19 ottobre è tornato a rivedere la luce (dell’impunità).

La Cassazione ha annullato per vizio di competenza la sua condanna in secondo grado a 8 anni e 5 mesi per associazione a delinquere e riciclaggio, e ora il processo dovrà ricominciare a Milano. Visto che è impossibile che si arrivi al terzo grado di giudizio entro il 2023, si può già star certi che tutte le accuse cadranno in prescrizione. Identico destino attende anche i processi per i crac di Veneto Banca e Popolare Vicenza.

Banchieri in manette, condanne detentive a due cifre, passaporti ritirati, conti e patrimoni personali bloccati. Sicuramente, negli anni, abbiamo visto troppi film sui lupi di Wall Street e sulla fine che fanno quando il Dipartimento di giustizia si convince che abbiano frodato risparmiatori, investitori e soci vari. Ma in Italia, per capire che aria tira, basta rivedere il servizio del Tg regionale del Veneto di lunedì 30 settembre, dedicato all’udienza di quel giorno al Tribunale di Vicenza per il disastro della ex Bpvi, un buco da oltre tre miliardi di euro che ha distrutto i risparmi di circa 120 mila soci. Il principale imputato è Zonin, per vent’anni presidente della banca e fondatore dell’omonima casa vinicola, sempre presente in aula. Quel giorno, però, non c’è, e la Rai giustamente registra il fatto: «Presenti oggi tutti gli imputati in aula tranne l’ex presidente, Gianni Zonin, in trasferta negli Stati Uniti».

In quell’essere «in trasferta» negli Stati Uniti, manco fosse, più che l’imputato chiave, il presidente della Repubblica, c’è una sintesi involontariamente perfetta di che cosa vuol dire essere un «banchiere che sbaglia» in Italia. Non solo nessuna detenzione cautelare (il che comunque, se applicato a tutti i cittadini, resterebbe un indice di maggior civiltà giuridica), ma anche sequestri patrimoniali assai tardivi e parziali, possibilità di spogliarsi di quasi tutto il patrimonio a favore dei figli e piena libertà di movimento in Italia e all’estero, dove l’imputato Zonin va appunto «in trasferta» grazie a un passaporto che sarebbe stato ritirato a chiunque. Eppure, non si pensi che a Vicenza la giustizia stia dormendo. Anzi. Il processo è probabilmente il più veloce d’Italia, con le sue udienze settimanali che, quando saltano, vengono recuperate il sabato seguente. A questi ritmi, si dovrebbe arrivare a sentenza entro l’estate. Ma la prescrizione per il reato più grave, l’ostacolo alla vigilanza, arriverà nel 2021, ed entro quel termine è impossibile immaginare che si possano celebrare anche il secondo grado e il ricorso in Cassazione. Del resto, l’unico coimputato che potrebbe davvero mettere nei guai Zonin è il suo ex a.d. Samuele Sorato.

La posizione di quest’ultimo è stata stralciata per due anni per «gravi motivi di salute», ma adesso pare che stia meglio e il 31 ottobre dovrebbe essere interrogato. Altra bizzarria del processo in corso è che alcuni testimoni dell’accusa sono stati «segnalati» dal collegio giudicante alla Procura perché evidentemente reticenti. Con il senno di poi, ma forse anche del prima, avrebbero per caso dovuto partecipare al processo da imputati? E finirà tutto in nulla, a Vicenza? La Procura lo teme e allora ha già aperto una nuova inchiesta per bancarotta fraudolenta, reato con prescrizione lunga, ma gli avvocati di Zonin andranno giustamente fino in Cassazione per contestare l’insolvenza della banca quando il loro assistito si dimise, nel novembre 2015. E poi, se l’inchiesta-bis dovesse andare avanti, sarebbe complicato fermarsi solo a Zonin e «risparmiare» le gestioni seguenti, perché i bilanci della banca vanno guardati tutti, compresi quelli firmati dai «risanatori» mandati da Tesoro e Bankitalia. 

Ma il capolavoro assoluto sta andando in scena nella vicina Treviso, dove dopo tre anni sono tornate indietro da Roma le inchieste per truffa, aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza su Veneto Banca, un buco che da «solo» vale un miliardo ma che insieme a quello dei cugini vicentini ha costretto il governo a impegnare 17 miliardi di soldi pubblici e coinvolto 90 mila soci. A Vincenzo Consoli e alla moglie, la procura di Roma aveva «inflitto» una serie di sequestri patrimoniali, che però negli ultimi mesi sono stati in buona parte revocati dalla magistratura veneta perché con la prescrizione i capi d’imputazione sono scesi da 9 a 5. Ma a far capire come finirà tutta la storia bastano due particolari: la procura trevigiana ha scelto di processare il solo Consoli, che evidentemente ha distrutto una banca facendo tutto da sé (già si immagina come sgraneranno gli occhi in Cassazione) e a distanza di mesi non si riesce a far partire il processo perché con migliaia di parti civili non c’è un’aula sufficientemente grande.

In generale, come ha lamentato più volte anche il presidente del Veneto, Luca Zaia, qui la magistratura è sotto organico. Ma all’unica toga che negli anni d’oro tentò di mandare a processo Zonin, Cecilia Carreri, viene negato il rientro in magistratura per una serie di cavilli formali sulla sua lettera di dimissioni.

Un po’ più di umiltà o semplice prudenza, nel valutare le richieste degli avvocati difensori, avrebbe probabilmente salvato da questo finale inglorioso le inchieste genovesi su Carige. Oggi la banca ligure è commissariata dalla Bce ed è alle prese con il quinto aumento di capitale degli ultimi anni, un’operazione da 900 milioni di euro, mentre il titolo in Borsa è sospeso da prima di Natale. Ebbene, il 16 ottobre la Cassazione ha sancito che tutte le condanne per i reati che nel 2014 portarono all’arresto dell’ex presidente Giovanni Berneschi sono nulle. Sei anni di processi inutili sui prestiti «agli amici degli amici», sulle plusvalenze gonfiate e poi usate all’estero, su una serie di compravendite immobiliari sospette. Berneschi, processato insieme ad altri manager, si era preso in appello otto anni e cinque mesi di galera. Ora «rimbalza» a Milano, ma il reato principale, su cui s’innestano tutti gli altri, si prescrive nel 2023. Dove è saltato il processo? Le aggravanti del (presunto) riciclaggio hanno fatto diventare questo reato più grave della semplice associazione a delinquere, che era stata «organizzata» a Genova, e il riciclaggio si sarebbe invece consumato a Milano. Gli avvocati lo avevano detto fin dall’inizio.

Hanno sopportato molto anche migliaia di azionisti Mps, che a fine 2015, prima della sciagurata acquisizione di Antonveneta, valeva in Borsa 12,2 miliardi di euro e oggi, nonostante continui aumenti di capitale e l’intervento del Tesoro con cinque miliardi (è arrivato al 68 per cento del capitale), vale appena 1,7 miliardi, ovvero un settimo. 

A fine maggio la Cassazione ha confermato l’assoluzione degli ex vertici del Monte nel processo per ostacolo alla vigilanza sul contratto in derivati con la banca giapponese Nomura. Nell’accogliere il ricorso delle difese di Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarri, i giudici hanno disposto un secondo appello a Firenze solo per valutare se concedere un proscioglimento più ampio «perché il fatto non sussiste». Secondo la Cassazione, nessuno aveva nascosto a Consob e Bankitalia il contratto sui derivati che avevano affossato il Monte dei Paschi di Siena. Un colpo micidiale anche alla narrazione dominante, che da noi vuole sempre i vigilanti vittime dei vigilati.

Era invece attesa per ottobre la sentenza del processo milanese sui derivati Santorini e Alexandria, le cui perdite, insieme ad altre operazioni, sarebbero state occultate. Le richieste di condanna da parte dei pm sono pesanti: otto anni di carcere per Giuseppe Mussari e Antonio Vigni e sei anni per Gianluca Baldassarri. Le operazioni contestate sono andate in scena tra il 2008 e il 2011 e le prime, naturalmente, sono già cadute sotto la mannaia della prescrizione. Vedremo che cosa resterà delle altre.

Ben più piccola, ma non meno sconvolgente, la storia di Banca Etruria, che ha bruciato i risparmi di 35 mila toscani, polverizzato 300 milioni di euro di azioni e obbligazioni e richiesto un intervento pubblico da 400 milioni. A settembre il gip di Arezzo ha prosciolto dall’accusa di bancarotta fraudolenta per la mancata fusione con la Vicenza gli ex amministratori, tra cui Lorenzo Rosi e Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena di Italia viva. A luglio, invece, sono stati rinviati a giudizio l’ex dg Luca Bronchi, l’ex presidente Giuseppe Fornasari e altri manager per falso in prospetto, reato che sarebbe stato commesso quando alla Consob furono mandate informazioni «edulcorate» per l’emissione di un bond. C’è anche un altro filone sulle consulenze allegre e su tutto aleggia la delicata vicenda del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, che non si fece problemi a lavorare come consulente di un governo dove c’era la Boschi ministro. In ogni caso, la banca è stata liquidata nel 2014, siamo a fine 2019 e come si vede è tutto disperso in mille, lentissimi rivoli.

E mentre si aspetta da quasi un anno che in Parlamento si degnino di partire con la nuova commissione d’inchiesta sulle banche, vengono in mente le parole pronunciate più volte da Pier Ferdinando Casini quando guidava quella precedente: «Colleghi, cerchiamo di non intralciare il lavoro della magistratura». Con il senno di poi, forse è stato uno scrupolo eccessivo. 

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Francesco Bonazzi