Tutte le tasse che schiacciano le imprese
DANIELE SCUDIERI / Imagoeconomica
Economia

Tutte le tasse che schiacciano le imprese

Il governo Letta voleva attirare investimenti e facilitare la vita alle aziende. Invece il carico fiscale resta tra i più alti al mondo - Troppe detrazioni, vero. Ma il problema sono le tasse

Paolo Virzì l’ha scelta come ambientazione del suo ultimo film, Il capitale umano, inno alla speculazione e ai soldifacili. Ma la Brianza, con le villette unifamiliari e il suv parcheggiato in giardino, da stereotipo di patria dell’imprenditore arricchito è diventata il prototipo della deindustrializzazione in Italia: al Tribunale di Monza lo scorso anno sono stati dichiarati 358 fallimenti, uno al giorno, e ci sono altre 650 richieste in attesa di pronuncia. E mentre il governo s’incarta su sterili dibattiti e plaude al primo flebile recupero della produzione industriale a novembre dopo 26 mesi di calo, i «giapponesi d’Italia» e i loro colleghi di tutt’Italia cercano di parare, da soli, i contraccolpi di una crisi che il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha definito «come una guerra».

Secondo i dati di Crif, società d’analisi specializzata in business information, in Italia nei primi 9 mesi del 2013 hanno portato i libri in tribunale oltre 10 mila imprese, cioè più di due all’ora e quasi 50 al giorno. Un’emorragia che non si arresta, nonostante il saldo tra aperture e chiusure aziendali nel terzo trimestre 2013 sia stato positivo per oltre 12 mila unità, dato che comunque resta il più basso dell’ultimo decennio: spesso aperte grazie a contributi europei (il 30 per cento sono imprenditori under 35) o per rispondere all’esigenza di crearsi un lavoro in proprio dopo che se n’è perso uno, sono aziende fragili, destinate a non mettere radici. Che lo Stato, per primo, cerca di seccare. Paradigmatico è il settore della birra che da qualche anno registra una grande effervescenza, grazie all’intraprendenza di 500 nuovi piccoli e medi imprenditori che hanno realizzato birrifici in tutta Italia, spesso in zone disagiate, creando migliaia di posti di lavoro soprattutto tra i giovani.

Lo scorso ottobre il governo ha deciso che per finanziare interventi su università e cultura era necessario aumentare le accise sulla birra, una manovra che da qui al 2015 farà incassare allo stato 200 milioni di euro, ma che graverà di un 15 per cento sul prezzo finale delle bionde. «A regime un sorso su due del nostro boccale di birra se lo berrà il governo» ricorda amaramente Alberto Frausin, presidente di Assobirra, «ma intanto in novembre le vendite sono scese del 14,3 per cento. Tutto ciò è demenziale se si pensa che in 6 anni abbiamo triplicato le esportazioni di birra all’estero, che per ognuno dei quattro ritocchi previsti dovremo aggiornare i sistemi informatici con notevoli costi per le aziende e che all’erario versiamo già 4,1 miliardi di tasse». E si potrebbe continuare con il comparto delle sigarette elettroniche, che il 1° gennaio di quest’anno ha brindato al suo primo compleanno con una nuova super imposizione del 58,5 per cento e con la richiesta di messa in mobilità per mille dipendenti, che magari potranno sperare nell’assegno universale promesso dal nuovo «jobs act» renziano.

Perché l’erario ormai è il vero socio di maggioranza delle imprese italiane, come conferma il Centro studi di Confindustria, secondo cui le nostre aziende nel 2012 hanno avuto il primato negativo del prelievo fiscale più elevato al mondo, pari al 65,8 per cento degli utili, contro il 49,4 per cento della Germania. In arrivo c’è la Tasi, la tassa sui servizi indivisibili, che promette una nuova stangata da almeno 1 miliardo sui portafogli già dissanguati degli imprenditori. «Il governo ci aveva promesso la deducibilità dell’Imu sugli immobili commerciali, che poi non è arrivata, e ora con la Tasi innalza ancora la fiscalità sulle aziende che invece di semplici bancomat dovrebbero essere il motore della crescita di questo Paese» sottolinea Andrea Bolla, presidente del comitato tecnico per il fisco di Confindustria e imprenditore veneto dell’energia. «Le riforme da fare in Italia? La prima è a costo zero: semplificare e creare un rapporto più giusto tra Stato e contribuenti. Bisogna approvare in tempi brevi le proposte concrete che le imprese hanno presentato da mesi. Poi c’è bisogno di una significativa riduzione del cuneo fiscale, almeno 10 miliardi di euro. Le risorse si possono e si devono trovare attraverso una seria lotta all’evasione e una vera spending review. Ma le istituzioni devono rispettare lo statuto dei contribuenti e i loro diritti inviolabili, altrimenti la nostra motivazione via via si spegne soprattutto quando vediamo che all’estero ci trattano molto meglio».

Così la «fabbrichetta» e il «capannoncino» di brianzola memoria rischiano davvero di diventare un ricordo, demoliti pezzo a pezzo dal moloch della burocrazia che inghiotte tempo e risorse senza sosta. Secondo il rapporto Doing business 2014 della Banca Mondiale, l’Italia è al 112° posto al mondo per tempo medio d’ottenimento di permessi edilizi, con una durata media della pratica di 233,5 giorni e 11 procedure da ottemperare. Tempi morti che prosciugano il fatturato delle aziende di quasi 1 miliardo di euro l’anno, con la perdita di almeno 6 mila posti di lavoro secondo i calcoli di Confartigianato. Poi ci sono le 269 ore «sprecate» ogni 12 mesi per preparare documenti ed effettuare pagamenti fiscali e contributivi: 93 procedure burocratiche che fiaccano le piccole e medie imprese italiane e che costano al sistema la cifra iperbolica di 31 miliardi di euro, pari  a 2 punti di Pil. Ma si può arrivare ai 7 anni dei processi autorizzativi per il quartier generale lombardo del colosso dell’abbigliamento sportivo Decathlon oppure ai 5 anni per una centrale turbogas in Puglia, che il proponente svizzero ha deciso di spostare alle porte di Parigi, dove in sei mesi era già cantierizzata. «E potrei citare altri 350 casi di questo tipo, dove la malafede di molti sindaci e l’ostilità delle comunità blocca la creazione di migliaia di posti di lavoro e fa scappare gli investimenti stranieri» conferma Alessandro Beulcke, presidente dell’Osservatorio Nimby Forum.

Perché la semplificazione, nonostante slogan azzeccati,ma mai realizzati come «l’impresa in 7 giorni», rimane l’araba fenice. Gli esperti di Confartigianato hanno stimato come nei 29 provvedimenti fiscali emanati tra l’aprile 2008 e il maggio 2013 era contenuta la cifra-mostre di 491 norme fiscali, di cui 288 con impatto burocratico sulle imprese, qualcosa come una disposizione ogni 6,4 giorni. Ridotte al lumicino, invece, quelle che semplificano la vita degli imprenditori: nello stesso periodo sono stati solo 67 gli interventi che hanno abbassato il carico burocratico alle aziende, con un rapporto schiacciante di uno a favore e quattro contro. «Il governo dovrebbe intervenire, anche con norme impopolari, e disboscare questa pletorica massa di adempimenti e organismi inutili» suggerisce l’avvocato Alessandro Munari, dello studio legale Munari Cavani. «E mi riferisco anche a norme-pilastro come la legge sulla privacy, quella sulla responsabilità amministrativa delle società e sulla sicurezza sul lavoro che moltiplicano i compiti inutili di imprenditori e amministrativi, diventando una penalizzazione per gli investitori stranieri ». E anche quando si va in tribunale, le cose non migliorano.

L’Italia, infatti, è fanalino di coda in Europa per i tempi di risoluzione delle cause commerciali: per avere giustizia servono 564 giorni per il primo grado e 1.210 per i tre gradi di giudizio. Ma allora l’Italia non è più un Paese per imprenditori? «Io sono un ottimista nato» dice Paolo Preti, docente di organizzazione aziendale delle piccole e medie imprese all’Università Bocconi di Milano, «e preferisco pensare che l’imprenditore è chi ha idee, le vuole realizzare in prima persona e indipendentemente da aiuti esterni. Una sorta di pioniere, come nel dopoguerra». Allora l’Italia è un Paese per pionieri.

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Mikol Belluzzi