Aston Martin e la plastica cinese
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Economia

Aston Martin e la plastica cinese

Aver acquistato il pedale dell'acceleratore di scarsa qualità in Cina costerà un grave danno di immagine al brand del lusso assoluto

Ma come si fa a scivolare sulla plastica cinese? Difficile che qualcuno voglia mettersi nei panni di qualche top manager o dirigente della Aston Martin , snob e lussuosa casa automobilistica britannica costretta a richiamare il 75 per cento delle vetture prodotte dal 2007 sino a oggi perché il pedale dell’acceleratore è composto anche di plastica contraffatta cinese, non corrispondente ai requisiti richiesti. E si rompe.

Possibile, ci si chiede, che la fabbrica acquistata nel 2012 dal fondo Investindustrial di Andrea Bonomi , che è già in partnership tecnologica con la Daimler (proprietaria del marchio Mercedes e prossima anche ad acquistare il 5% di Aston Martin) abbia davvero avuto bisogno di una fornitura da un Paese così lontano e difficile da controllare?

Di certo, il danno di immagine è piuttosto pesante. E se non è il risultato di una disattenzione o di un imbroglio ben congegnato, di certo non tiene conto dei manuali del lusso di cui i francesi sono così bravi studenti. “È noto a tutti: un brand si costruisce in due anni, ma per le competenze, i fornitori, qualità e il know how di Alta Gamma ce ne vogliono cento" dice Stefania Saviolo, docente di fashion management all’Università Bocconi di Milano. Morale: serviva davvero risparmiare con la plastica cinese? Se lusso deve essere infatti, deve esserlo davvero. Altrimenti non sarà servito a niente per Aston Martin essere la macchina di James Bond, “perché risparmi qualche milione da una parte e ne perdi il quadruplo come valore sul mercato”.

Bonomi ha già impegnato nel rilancio dell’azienda 825 milioni con l’obiettivo però di vendere almeno 7mila auto l’anno. Quanto gli costerà l'affaire cinese, anche se di vecchia data e non imputabile alla sua gestione?

Prendiamo gli americani della Haworth che comprano Poltrona Frau. Sanno benissimo che acquistano anche il procedimento di costruzione, irrinunciabile, della concia delle pelli in italia, della maestria artigiana dei falegnami di Meda e Tolentino. I francesi di Kering (ex Ppr vale a dire Henry Pinault) si è comprato Gucci, Brioni, Sergio Rossi, Pomellato, Bulgari e Richard Ginori? Il discorso non cambia. E la filiera di Alta Gamma viene tutelata con appositi contratti aziendali. Idem per gli arabi con Valentino e per Arnault (Gruppo Lvmh) con Fendi, Loro Piana e altri e per la gran parte dellle 437 aziende italiane di eccellenza passate in mani estere, che annoverano anche Edison, Parmalat e i cioccolatini Pernigotti. “Se io acquisto una Ferrari e sono disposto a pagare per una Ferrari, mi aspetto di avere i freni di Brembo, i sedili di Frau e tante altre garanzie di eccellenza. E chi produce brand di lusso dovrebbe saperlo”, sottolinea ancora Saviolo. “In più c’è una considerazione di buon senso da fare. Spesso i fornitori vengono scelti vicini, nel distretto, proprio per favorire il controllo della qualità e dei requisiti della produzione, la flessibilità e la comunicazione”. In Cina, c’è un altro mondo. E ha dimostrato che può far vacillare anche James Bond.

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Antonella Bersani

Amo la buona cucina, l’amore, il mirto, la danza, Milan Kundera, Pirandello e Calvino. Attendo un nuovo rinascimento italiano e intanto leggo, viaggio e scrivo: per Panorama, per Style e la Gazzetta dello Sport. Qui ho curato una rubrica dedicata al risparmio. E se si può scrivere sulla "rosea" senza sapere nulla di calcio a zona, tennis o Formula 1, allora – mi dico – tutto si può fare. Non è un caso allora se la mia rubrica su Panorama.it si ispira proprio al "voler fare", convinta che l’agire debba sempre venire prima del dire. Siamo in tanti in Italia a pensarla così: uomini, imprenditori, artisti e lavoratori. Al suo interno parlo di economia e imprese. Di storie pronte a ricordarci che, tra una pizza e un mandolino, un poeta un santo e un navigatore e i soliti luoghi comuni, restiamo comunque il secondo Paese manifatturiero d’Europa (Sì, ovvio, dietro alla Germania). Foto di Paolo Liaci

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