Apple, Google, Facebook, Amazon: ecco perché è opportuno limitarli
Economia

Apple, Google, Facebook, Amazon: ecco perché è opportuno limitarli

Fra i colossi del mondo digitale e i piccoli operatori c’è un abisso. Serve garantire più concorrenza per il bene del mercato

La realtà è sotto gli occhi di tutti. L’oceano tecnologico è letteralmente spaccato in due: da un lato ci sono i pesci grossi - Apple, Google, Facebook e Amazon - dall’altro tutte le restanti minuscole creature. Ma un ecosistema di questo tipo può durare ancora per molto? Se lo chiede The Economist in un interessante articolo apparso questa settimana nel quale cerca di fare luce sui motivi che hanno portato a un regime pressoché monopolista nel mondo delle nuove tecnologie.

Si parte da una considerazione: se è vero che la rivoluzione digitale è partita proprio dai giganti del Web, che con la loro opera hanno contribuito in modo determinante a semplificare la vita dei consumatori e delle imprese e a promuovere la libertà di parola, è altrettanto innegabile che la posizione dominante di questi colossi sul mercato finisca per soffocare qualsiasi possibilità di concorrenza.

I numeri  sono impietosi: Google, con il suo motore di ricerca, attrae i due terzi delle ricerche in America e circa il 90% di quelle di molte nazioni europee; Apple è l’azienda più ricca del mondo con un patrimonio superiore persino a quello del Governo degli Stati Uniti, Facebook, con il suo miliardo e rotti di iscritti, è la terza nazione più popolosa del Pianeta; Amazon, infine, è il leader indiscusso dell’e-commerce con un fatturato di 50 miliardi di dollari nel 2011.

Mettersi a muso duro con mastodonti di questo calibro è impresa improba anche per la società più seria e attrezzata di questo mondo. Non solo per ragioni di mera grandezza (chi mai vorrebbe affrontare un carro armato a colpi di fionda? ) ma anche per l’ormai profondo radicamento degli utenti verso i prodotti e i servizi di questi brand. Provate voi a convincere qualcuno che può fare a meno delle ricerche su Google o che da domani dovrà lasciare i suoi amici per migrare verso un altro social network che non sia Facebook.

Il fatto è che queste società hanno capito come tenersi vicini i propri utenti grazie (anche) a tutta una serie di applicazioni Web che girano su PC, smartphone e tablet. Facebook è dappertutto, Google ha fidelizzato i suoi utenti con i “G-Services” servizi (da GMail a Drive, da Google Maps a Google Music), Apple ha un patrimonio sterminato di applicazioni create su misura per iPhone e iPad, Amazon ha creato Cloud Drive . Il nostro futuro digitale sembra ormai legato a doppio filo con quello dei grossi brand dell’hi-tech, per molti di noi lasciare la strada vecchia per la nuova comporterebbe tutta una serie di “sacrifici” che finirebbero per stravolgere certe buone e vecchie abitudini.

E l’impressione è che col passare del tempo questo legame non potrà far altro che rinsaldarsi. Anche perché tutti i big si stanno rinforzando, utilizzando parte dei loro immensi capitali per acquistare altre società, o - per tornare alla metafora da cui siam partiti - per mangiarsi i pesci piccoli. Amazon ha acquisito Zappos, Facebook Instagram, Google AdMob, Apple Color, solo per citare i più recenti.

In un contesto di questo tipo qual è il ruolo degli organismi Antitrust? Finora, spiega The Economist, i cani da guarda degli organismi internazionali si sono limitati a vere proprie azioni chirurgiche contro i cattivi comportamenti: contestando, ad esempio a Google il tentativo di favorire i suoi servizi all’interno del motore di ricerca, ad Apple alcuni accordi con gli editori per la vendita di ebook, a Facebook la scarsa trasparenza nei meccanismi della privacy. Nessuno però che abbia mai preso provvedimenti o posizioni sul ruolo in sé di questi protagonisti all’interno del mercato di riferimento.

Alcuni critici pensano che questa azione sia stata troppo debole. È il caso, per esempio, di Tim Wu, professore alla Columbia Law School e consulente della FTC, che ha una ricetta tutta sua per combattere il monopolio sull'informazione digitale e favorire un mercato più concorrenziale: società come Apple e Google, spiega, dovrebbero essere costrette a selezionare una e una sola porzione di business sulla quale operare, scegliendo se essere produttori di hardware, fornitori di contenuti digitali piuttosto che distributori di informazioni.

Come dire che il mondo dell'hi-tech dovrebbe essere “macellato” e ridotto in pezzi più piccoli per diventare più competitivo. Un’ipotesi interessante ma che avrebbe certo il rovescio della medaglia. A fronte di un’apertura del mercato, gli utenti si ritroverebbero tanto per cominciare con servizi meno facili da usare, e forse più facili da abbandonare.

E allora, cosa dobbiamo aspettarci? Più facile che non cambi niente, almeno per un po’. Faremo in tempo a veder crescere Google, Facebook, Apple ed Amazon sempre di più, rubandosi – se serve – idee e nicchie di mercato.  I primi sintomi di questa omologazione si vedono già: Google non è più solo un  motore di ricerca né un mero provider di servizi Web, ma qualcosa di molto vicino a una hardware company capace, grazie ad Android, di invadere il campo di Apple. Che a sua volta sta cercando di farsi largo nei settori presidiati storicamente da Mouintain View: oggi con le mappe, domani, chissà , con un motore di ricerca. Analogamente, Amazon si sta spostando dall’ecommerce all’elettronica di consumo e alla costruzione di servizi cloud, mentre Facebook si butta sulla pubblicità online, sulla distribuzione di app e medita su un ingresso nel mondo dei telefonini intelligenti .

Insomma, si andrà avanti così fino a quando i pesci grossi disporranno di un portfolio di prodotti e servizi più o meno paritario: a quel punto sarà ufficialmente aperta la battaglia del tutti-contro-tutti. Forse ne resterà uno solo, o forse, a quel punto, i giganti dell’hi-tech si renderanno conto che si stava meglio prima, che forse è meglio spartirsi la torta, chinando il capo di tanto in tanto davanti al flebile latrato dei cani da guardia.

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Roberto Catania

Faccio a pezzi il Web e le nuove tecnologie. Ma coi guanti di velluto

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