Alberto Nagel, Ligresti e l'accordo in pieno stile Mediobanca
Economia

Alberto Nagel, Ligresti e l'accordo in pieno stile Mediobanca

La firma in calce alla lettera che garantiva una buonuscita per i figli di Salvatore Ligresti era una "presa di coscienza". Forse contraria alla legge. E ora la giustizia faccia il suo corso

Peccato che non sia un film, questa storia della Fonsai e di Mediobanca e dei Ligresti, uno di quei bei film hollywoodiani dove c’è anche la cattiveria ma almeno è mitica. Un film dove il pm integerrimo incalza il torvo ma colossale cattivo, che alla fine contrattacca rivendicando la cupa grandezza del suo delinquere: "Ordinò lei il codice rosso?", chiede Tom Cruise-Daniel Kafee al colonnello Jack Nicholson-Nathan Jessep in Codice d’onore. E l’altro, rabbioso, per un po’ dissimula, ma alla fine sbotta: "Certo, che l’ho ordinato, che cazzo credi?".

Nella piccola Cinecittà di cartapesta della cosiddetta alta finanza italiana non funziona così. È tutto un po’ loffio, mai niente di epico. La famiglia Ligresti sfascia anno dopo anno una grande azienda assicurativa, indisturbata; e i suoi creditori di sempre, capitanati da Mediobanca, per proteggere i propri mal riposti crediti, la tutelano fino all’ultimo, finchè possono, finchè non glielo proibisce la legge (infatti: che ci sia reato, in questo squallore è tutto ma tutto da dimostrare) e - sapendo che "non si fa" – tengono la cosa nell’ombra senza cedere ma senza nemmeno troncare. Alla fine, firmano un accordo segreto, una buonuscita di cui le autorità non devono sapere nulla perchè la boccerebbero, e di fatti qualche giorno più tardi ne proibiscono la stipula: una firma illegittima, dunque?

"No!", smentisce Alberto Nagel, 47 anni, da 7 amministratore di Mediobanca, di quella Mediobanca che sta a Ligresti come il dottor Frankenstein sta alla sua Creatura, in questa Transilvania di Salotto Buono che è ormai come un film muto. Nagel non ha apposto una firma illegittima, scrivendo il suo nome in calce all’accordo segreto che ieri il procuratore di Milano Luigi Orsi gli ha messo sotto al naso, dopo averlo sequestrato nella cassaforte dell’avvocatessa Cristina Rossello, segretario del patto di sindacato di Mediobanca.

Alla settima ora di interrogatorio Nagel non è sbottato, non ha detto al Pm: "Certo che l’ho firmato, che cazzo credi?". Nagel ha detto – riferisce il Corriere della Sera, che ha nella banca amministrata da Nagel il suo primo azionista e vanta cronisti giudiziari capaci di fare scoop che tutti gli altri media spesso devono copiare – di aver siglato "la fotocopia di un foglio di carta esclusivamente per presa di conoscenza".

Inverosimile? Assurdo, come ricevere una casa in regalo "a propria insaputa"? Implausibile, come andare in vacanza tutto-gratis a spese di amici ricchi rimborsandoli solo a babbo morto e senza conservare i bonifici del rimborso? No, tutt’altro. In questo caso, la versione di Nagel "ci sta". Se da sempre in Mediobanca si sono fatti accordi occulti rispetto al mercato – e questo è un metodo agli atti della storia economica italiana – è pienamente in linea con questo stile che stavolta ad essere ingannata sia stata la famiglia Ligresti.

Quel foglio di carta scritto a mano non era un contratto vero e proprio, era solo un pro-memoria di un "patto d’onore"; certo, vi si configurava un’intesa contra legem, impegnando oltretutto "terze parti", accettando richieste non destinate a Mediobanca ma a Unicredit e Unipol, ma proprio per questo, quella firma era solo una "presa d’atto di desiderata", che valore legale potrà mai avere avuto?

Valore legale probabilmente no, o comunque è materia da giuristi, di quelle che veramente non appassionano nessuno. Salvo ovviamente l’interessato, Alberto Nagel, che su quella firmetta si gioca ben più che una condannicchia con la condizionale, si gioca la poltrona di capo di Mediobanca, se mai lo riconoscessero colpevole di quella strana fatispecie di reato che è "ostacolo all’attività di vigilanza", di una vigilanza che da anni, sul caso Fonsai, chiudeva entrambi gli occhi.

Ma a parte il caso Nagel, il dettaglio di quell’accordo segreto è marginale. Il fulcro della vicenda dovrebbe interessare il legislatore. Perchè le logiche profonde con cui lavora questa giovane-vecchia finanza italiana, in barba a tutte le riforme, sono le stesse di cinquant’anni fa, e vanno definitivamente archiviate. E la legge sull’Opa è da rifare. Il caso Fonsai avrebbe dovuto essere da tempo risolto affidandolo al mercato e non a dei supposti "registi di sistema" autonominatisi, incapaci di disegnare vere strategie e avere visioni degne di un sistema moderno.

Detto ciò, si ricordi anche che non Nagel o il vecchio Don Salvatore Ligresti ma la lentezza e la miopia delle autorità hanno fatto sì che ormai Fonsai sia passata a Unipol senza transitare per il mercato, con buona pace delle minoranze e della libera concorrenza, che in fondo nel settore assicurativo non c’è mai stata, e basta dare uno sguardo ai confronti tariffari tra Italia ed estero per ricordarsene e per avere mal di tasca. Proprio per questo, diciamolo: è finita male, la vicenda Fonsai, ma con simili premesse, poteva finire anche peggio.

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Sergio Luciano