Casa Agnelli: così il nipote John Elkann è diventato capofamiglia
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Economia

Casa Agnelli: così il nipote John Elkann è diventato capofamiglia

Come ha fatto il giovane erede dell’Avvocato a diventare timoniere indiscusso

La vera notizia è che Sergio Marchionne parla meno che in passato. «Si nota, vero?» chiedono ammiccando gli amici di John Elkann, il presidente del gruppo Agnelli. Si nota, si nota. Qualcuno deve averlo tirato per il maglioncino. Come si notano i 2 miliardi di euro, di cui 1,5 di plusvalenza, che l’Agnellino trentasettenne (suo nonno Gianni, l’Avvocato, a quell’età stava ancora in Costa Azzurra a fare il playboy mentre a Torino Vittorio Valletta mandava avanti la baracca) si è fatto dare dal Groupe Bruxelles Lambert (Gbl) per cedere la quota del 15 per cento che la Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, deteneva nella Sgs, multinazionale svizzera della certificazione. Si è notato poco, invece, il commento che Elkann ha scolpito nel comunicato stampa ufficiale sulla Sgs, per dire che l’azienda sarebbe rimasta in buone mani: quelle della famiglia Von Finck, e del «gruppo Bruxelles Lambert, un investitore per il quale nutriamo grande rispetto. Gbl e i suoi azionisti di controllo, le Famiglie Desmarais e Frère, che conosco bene personalmente, sapranno sostenere appieno Sgs nella sua prossima fase di sviluppo».

Eccola lì, la chiave di questa fase due di John Elkann: sta tutta in quel «conoscere personalmente», rimarcato con forza, per far capire che i compratori li ha trovati lui. Puro stile Avvocato: «Bella donna, l’ho conosciuta da ragazza» disse una volta a proposito della matura neomoglie di un imprenditore importante, torinese come lui, per una vita proteso nella fallimentare imitazione dell’icona... Ecco: conoscere personalmente è la chiave del successo. E oggi John, rimarcando la natura personale delle sue relazioni, fa capire che la sua rubrica telefonica è proprio sua, non è più soltanto quella ereditata dal nonno, con metà dei numeri che ormai squilla a vuoto.

Vuole far capire che il suo superconsulente Gerardo Braggiotti della Banca Leonardo è bravo, ma che comunque è lui a comandare in casa sua. Che non sente la mancanza dei due «tutori» messigli al fianco dal nonno, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, ormai fuori da ogni incarico. Che insomma il pulcino è uscito dalla stoppia. Certo, nel pollaio torinese c’è un gallo cedrone: Marchionne. Ma i segnali di riposizionamento sono chiari. Della nuova (e relativa) laconicità di Marchionne s’è detto. E all’ultima assemblea Exor, dove peraltro Marchionne, pur stando a Torino, non è andato, John ha rimarcato il ruolo del manager, auspicando che resti anche oltre il 2015, però non ha trascurato di elogiare tutta la squadra di vertice del gruppo Fiat: Alfredo Altavilla, direttore generale Europa-Africa-Medio Oriente del gruppo Fiat Chrysler; Richard Tobin, direttore generale di tutta la  Fiat Industrial; Lorenzo Sistino, amministratore delegato della Fiat Automobiles. Un triumvirato selezionato dal padre-padrone Marchionne con il suo temibile metodo tritamanager, tre pitbull della gestione, virtualmente già pronti, alla bisogna, a sbranare managerialmente la mano che li ha allevati.

«Ma di che cosa vi meravigliate? È semplicemente la solita, vecchia regola che prevale, quella del comma quinto: chi ha i soldi ha vinto» chiosa un anziano banchiere che se segue da decenni le vicende torinesi. «E oggi la famiglia Agnelli è piena di soldi. Elkann non è più quel ragazzino che non sa lavarsi i denti evocato da Diego Della Valle. È un uomo d’affari. Carisma poco, lucidità molta. Più freddo e calcolatore del nonno, ha sostenuto il contenzioso con la madre senza fare una piega, lo ha praticamente vinto e si trova oggi ad avere, attraverso la finanziaria del suo ramo familiare, cioè la Dicembre società semplice, oltre il 35 per cento del capitale dell’accomandita che controlla l’Exor».

Ma è stata forse un’altra la mossa che, da sola, doveva bastare a far capire le intenzioni di Elkann. E cioè comandare in proprio sul suo gruppo, senza tutori: quella, anticipata lo scorso anno da Panorama, di approfittare della legge olandese che consente il voto doppio nelle assemblee degli azionisti  delle società quotate ai soci stabili. E di porre quindi nei Paesi Bassi la sede della Fiat Industrial. Dove l’Exor non vota per il 30,1 per cento ma per il 60,2. Facile previsione: anche la Fiat Chrysler finirà con l’avere la sede societaria nei Paesi Bassi o in un altro paese che difenda il «family capitalism». Altro che scendere di quota: «Eravamo disponibili ad avere meno azioni di un gruppo più grande» ha detto, del resto, Elkann «ma se fosse stato necessario. Ebbene, non è necessario».

Elkann ha sempre difeso il capitalismo familiare. E gliene piacciono i rampolli, come lui. E come il quarantacinquenne Lee Jae-Yong, responsabile operativo della Samsung Electronics e figlio di Lee Kun-hee, il tycoon che controlla il colosso elettronico coreano, che ha voluto nel consiglio d’amministrazione dell’Exor. O come i suoi amici Ford, senza dubbio la dinastia industriale americana più abbarbicata all’azienda che porta ancora il loro nome, pur non essendone più propriamente controllata, a partire dal cinquantaseienne William Clay Ford, presidente esecutivo del gruppo, fino ai suoi figli e nipoti. Ed è in ottimi rapporti con la famiglia Murdoch, tanto che il vecchio magnate dei media l’ha voluto un mese fa nel consiglio della sua News Corp. Oltre che naturalmente con la famiglia del barone Albert Frère, che appunto è fra i soci di controllo del gruppo Bruxelles Lambert.

Del resto anche in Italia John ascolta ancora con piacere qualche «grande vecchio»: per esempio Enrico Salza, padre nobile del capitalismo torinese, rientra fra le sue periodiche e gradite consultazioni. Ma un conto è consultare, altro è prendere per oro colato. «Mio figlio ha relazioni internazionali straordinarie» ha detto di lui il padre Alain. «Dagli amici del nonno come Henry Kissinger ai coetanei di tutto il mondo, che ha conosciuto vivendo quasi sempre all’estero e ha sempre coltivato negli anni».

Alla fine John attinge informazioni da tutti, scruta il mercato e si comporta come un attento gestore di patrimoni, più che come un imprenditore fondatore. All’ultima assemblea della Exor ha ripetuto una frase del nonno cui è molto affezionato, tanto da averla propinata anche agli analisti  finanziari, nella precedente conference call: «Nella costruzione di un gruppo come il nostro ci sono tre tempi: il tempo della forza, il tempo del privilegio, il tempo della vanità. Per me conta il primo». John ha ripetuto questa frase ben sapendo che, se all’Avvocato molti rinfacciavano privilegi e  vanità, a lui privilegi se ne possono rinfacciare, ma vanità poca: quantomeno il look abbastanza casuale che persiste a sfoggiare proprio non ne rivela (agli antipodi rispetto al suo dandy fratello Lapo).

A John, insomma, interessa solo la forza del gruppo. E nulla che non sia funzionale al rafforzamento economico del gruppo. «La sua indecifrabile indifferenza ai power game italiani si spiega tutta così. Nella sua scala di valori l’Italia certo conta, ma pesa relativamente in termini economici. Anche sulla Rcs-Corriere: nessun disegno egemonico, solo la necessità di rabberciare una baracca cadente» aggiunge il banchiere interpellato da Panorama.

I conti tornano, se si guarda alla composizione del portafoglio investimenti della Exor com’è rispetto a 10 anni fa, quando John salì al vertice. Nel 2003 il rapporto fra i debiti e gli attivi del gruppo Exor era del 50 per cento: 1 euro di debito ogni 2 di asset. Oggi è inferiore al 10. Nel 2003 il 75 per cento di tutti i ricavi veniva prodotto in Europa, oggi il 35; un altro terzo viene sviluppato in Nord America, l’ultimo terzo nel resto del mondo. 

Chiaro, però, che per il giovane Elkann gli esami non finiscano mai. Per esempio, dovrà decidere cosa fare dei 2 miliardi ricavati dalla vendita della Sgs, visto che la Fiat sembra capace di autofinanziare l’acquisizione della Chrysler. Accanto alla Fiat Industrial, che pesa per un terzo degli attivi, e alla Fiat-Chrysler (15 per cento), c’è un 9 per cento di valore rappresentato dal gruppo immobiliare Cushman & Wakefield, alcune partecipazioni minori (dalla Banca Leonardo all’Economist) e 3 miliardi di liquidità. Che Elkann, insieme al nuovo capo degli investimenti assunto da lui, l’avvocato d’affari e banchiere Shahriar Tadjbakhsh, intende impiegare presto e bene.

«Pur essendo una persona che vive da sempre una vita speciale, si sforza, riuscendoci, di vivere una vita normale» conclude sul figlio Alain Elkann. Con un parrucchiere sotto la norma, a giudicare dal look: «Sì, me li dovrei proprio tagliare» ha detto John, prima dell’assemblea dei soci, specchiandosi
nell’ascensore.

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Sergio Luciano