I 5 motivi per cui i mercati si fidano sempre meno di Renzi
Ansa
Economia

I 5 motivi per cui i mercati si fidano sempre meno di Renzi

Fra riforma del lavoro e opaca visione di lungo periodo, ecco perché gli investitori internazionali stanno perdendo la pazienza

Quando il 22 febbraio scorso Matteo Renzi è diventato ufficialmente presidente del Consiglio dei ministri, i mercati finanziari sembravano avessero tirato un sospiro di sollievo. Dopo tanta incertezza sul futuro, un barlume di vivacità e di rinnovamento sembrava aver illuminato l’Italia. Il matrimonio fra Renzi e gli investitori internazionali è già finito, ma se non si è ancora arrivati alla separazione il merito è della Banca centrale europea (Bce). Ciò che i mercati recriminano al governo di Renzi si può racchiudere in cinque punti. 

L’Italia sembra ingovernabile

Mercato del lavoro

La riforma del lavoro appare in stallo, proprio come nel marzo 2012. Pochi mesi dopo l’insediamento di Mario Monti a Palazzo Chigi, una delle riforme strutturali più richieste a gran voce dalla Commissione europea era ancora un nulla di fatto. Durante un evento a Francoforte organizzato da Bloomberg e alla presenza della maggior parte degli investitori istituzionali, il disappunto emerse con una forza dirompente. In assenza di risposte entro poche settimane, l’Italia sarebbe stata di nuovo al centro delle pressioni dei mercati. Così fu, fino ad arrivare al Consiglio Ue del giugno 2012, in cui il rischio di disgregazione dell’euro sembrava sempre più reale. Solo l’intervento della Bce riuscì a placare il nervosismo degli investitori internazionali. E oggi siamo allo stesso punto di partenza. I dibattiti con le parti sociali e gli interessi politici stanno destabilizzando il governo. Le raccomandazioni della Commissione sono chiare e i mercati lo sanno. “L’Italia sembra ingovernabile”, ha scritto due settimane fa Lombard Street Research. O si agisce subito, o la pazienza potrebbe finire. 

A fine 2014 la crescita del Pil sarà probabilmente zero (Settembre 2014)

Il ritorno della recessione

La recessione e i ripetuti annunci d'ottimismo. In altre parole, sarebbe stato meglio il realismo, invece che l’arroganza. Che l’Italia avesse un problema di domanda interna, così come di rinnovamento dei fattori di produzione, era noto da tempo. Sia il Fondo monetario internazionale (Fmi) sia la Commissione Ue hanno più volte, negli ultimi 2 anni a mezzo, lanciato l’allarme sulla debolezza dell’economia italiana e sulla sua vulnerabilità agli shock esogeni. Eppure, Palazzo Chigi e Tesoro continuavano a vedere roseo per il 2014. Queste assunzioni si basavano però sulla vivacità della domanda esterna. Una volta ridottasi questa, le speranze si sono ridotte al lumicino. Il tempo guadagnato, grazie soprattutto alla Bce, doveva essere utilizzato per aumentare la competitività del Paese e per ripristinare i canali di accesso al credito da parte delle piccole e medie imprese. Invece, anche per l’anno in corso il Pil italiano si contrarrà. Una non notizia. Già in maggio la banca statunitense Goldman Sachs aveva ipotizzato questo scenario. 

La flessibilità di bilancio già esiste

Il semestre di presidenza Ue

L'occasione perduta del semestre di presidenza italiana dell'Ue. Iniziato il primo luglio scorso, questo semestre è già finito de facto. Poteva essere l’occasione per dare una nuova linea alle politiche fiscali della zona euro, ma l’Italia ha giocato male le sue carte. Ha cominciato chiedendo a gran voce, per mezzo stampa e non solo, una maggiore flessibilità di bilancio, e ha solo ottenuto qualche pacca sulla spalla da parte dei partner europei. E dire che l’opportunità ci sarebbe anche stata. Fra poco si apre la finestra di revisione del Fiscal compact, l’architettura contabile principe nell’area euro. Lavorare di basso profilo, riuscendo a far coincidere gli interessi nazionali e quelli degli altri Paesi, introducendo parte delle riforme strutturali promesse, avrebbe dato una capacità negoziale senza precedenti. E avrebbe giocato un ruolo importante per la credibilità internazionale del Paese verso gli investitori. L’Italia, con ogni probabilità, sarebbe stata vista come uno Stato capace di riformarsi, finalmente, e di riformare la parte più controversa dell’eurozona.

Il Fmi guardi alle banche tedesche, non alle italiane

Stantio sistema di governance delle banche italiane

Incapacità di usare il pugno di ferro per risolvere gli squilibri di governance nel sistema bancario italiano. Il Fmi sono anni che ricorda all’Italia che il modello di governance delle banche italiane è debole, fragile, facilmente scalabile e instabile. L’ultima raccomandazione, pochi giorni fa. L’ostracismo al rinnovamento dei vertici bancari, ancora troppo legati a doppio filo alla politica, specialmente locale, è una prassi consolidata. La risposta di Giuseppe Guzzetti, 90enne presidente dell’Associazione delle casse di risparmio italiane (Acri), non lascia spazio all’ottimismo: “Il Fmi dovrebbe occuparsi delle banche tedesche, non di quelle italiane”. Aprire un dialogo su un modello opaco, incapace di guardare oltre a quegli ultimi baluardi di capitalismo salottiero, in Italia sembra impossibile. Però intanto aumentato i Non-performing loan (crediti dubbi, o Npl), i costi per i finanziamenti alle imprese sono ancora ben più alti che in Germania e nel secondo trimestre dell’anno, secondo i dati Cerved, i fallimenti aziendali sono aumentati del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013.

L’Italia ha bisogno di shock positivi nell’immediato

Visione di lungo periodo

La poca chiarezza generale nel lungo periodo. Nonostante ci sia una road map, gran parte dei policymaker europei e degli investitori internazionali ritiene che 1.000 giorni sono troppi, anche con una gestione virtuosa del debito pubblico. “L’Italia ha bisogno di shock positivi nell’immediato, c’è urgenza di riforme, di segnali, di fatti oltre gli annunci”, ha scritto una settimana fa la banca angloasiatica HSBC. Ed è proprio questo il punto. Una volta che finirà l’effetto benefico delle misure della Bce - aste di rifinanziamento a lungo termine e acquisto di covered bond e titoli cartolarizzati - cosa ne sarà del Paese? Per dirla come direbbe il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, “i governi devono fare la loro parte”. Nel caso dell’Italia, la traduzione è chiara: introdurre le riforme promesse, in tempi ragionevoli. E ragionevolmente, 1.000 giorni sono troppi. 

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Fabrizio Goria

Nato a Torino nel 1984, Fabrizio Goria è direttore editoriale del sito di East, la rivista di geopolitica. Scrive anche su Il Corriere della Sera e Panorama. In passato, è stato a Il Riformista e Linkiesta e ha scritto anche per Die Zeit, El Mundo, Il Sole 24 Ore e Rivista Studio. È stato nominato, unico italiano, nella Twitterati List dei migliori account Twitter 2012 da Foreign Policy.

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