Spending review: e se tagliassimo le missioni all'estero?
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Spending review: e se tagliassimo le missioni all'estero?

Alcune missioni oltremare costano e non sono prioritarie per gli interessi nazionali

Il Ministero della Difesa ha preso tempo sul delicato tema dei tagli al bilancio rimandando alla messa a punto di un Libro Bianco le decisioni più scomode, come la riduzione o cancellazione dei cacciabombardieri F-35 e di altri programmi di acquisizione di nuovi armamenti. Restano confermati per ora i risparmi derivanti dalla riduzione degli organici che scenderanno dai 183 mila del 2012 a 150 mila nel 2024 e dalla vendita delle caserme. Ma si tratta di vantaggi tutti da verificare poiché la riduzione del personale richiederà molti anni e la relativa voce di spesa che assorbe  il 68 per cento del bilancio della Difesa, viene contenuta soprattutto grazie al blocco degli stipendi che nel caso dei militari significa decurtazioni salariali comprese tra il 10 e il 38 per cento della busta paga come ha rivelato recentemente l’organo di rappresentanza dei militari (COCER).

Anche la vendita di circa 400 basi e caserme potrebbe non fruttare molti incassi alla Difesa poiché gli enti locali che vorrebbero acquistarli non hanno fondi e l’attuale mercato immobiliare non incoraggia certo investimenti da parte di privati. Perché allora non recuperare il miliardo di euro all’anno di tagli che il governo si aspetta dalla Difesa dalle missioni all’estero? Invece di colpire un bilancio già ai minimi termini soprattutto nei fondi destinati all’Esercizio (addestramento, manutenzioni, carburante, spese di gestione) non sarebbe il caso di ritirarci almeno da alcune elle costose missioni oltremare?

Magari proprio da quelle che non riguardano direttamente gli interessi nazionali o in Paesi in cui non abbiamo sviluppato particolari interessi strategici e politici come l’Afghanistan, il Libano e il Kosovo. Le spese per le missioni vengono stanziate ad hoc dalla Presidenza del Consiglio e assorbiranno quest’anno circa un miliardo di euro con una tendenza in calo rispetto a 1,25 miliardi del 2013 e 1,4 dell’anno precedente e 1,55 del 2011 proporzionale alla riduzione dei militari oltremare: 5.000 contro gli 8.200 del 2011.
L’attuale missione afghana si esaurirà quest’anno ma di fronte al completo ritiro di  tutti i contingenti alleati solo italiani e tedeschi si sono impegnati a restare nel Paese asiatico al fianco degli Stati Uniti con missioni di addestramento e supporto alle forze afghane che assorbiranno per tre anni circa 800 militari con mezzi, aerei, elicotteri e droni.

Una missione che per l’Italia avrà costi previsti tra i 250 e i 300 milioni annui tra il 2015 e il 2017, periodo in cui ci siamo impegnati a versare altri 100 milioni di euro annuali alle forze armate di Kabul. Nel prossimo triennio restare a Herat ci costerà quindi almeno un miliardo di euro. Possiamo ancora permettercelo? Forse non se poi in Italia non ci sono i fondi per addestrare i reparti e neppure per i dovuti aumenti salariali del personale.   
E poi che interessi abbiamo da difendere oggi in Afghanistan? In 13 anni non abbiamo attuato nessuna seria penetrazione commerciale e non risulta che società italiane abbiano acquisito concessioni significative per sfruttare le immense risorse minerarie del Paese. Paradossalmente, in questo campo la parte del leone la fanno i cinesi che non hanno mai inviato un solo soldato a combattere i talebani.
In Libano i nostri 1.100 caschi blu costano circa 160 milioni all’anno e Roma sembra voler ottenere dall'Onu il rinnovo triennale del comando dell’intera missione Unifil
guidata oggi dal generale Paolo Serra. Ma anche nel Paese dei Cedri l’influenza italiana è marginale e l’esercito libanese sta per ricevere nuove armi francesi per 3 miliardi di euro finanziate dall’Arabia Saudita che ha l’obiettivo di “arruolare” Beirut nel fronte anti-Assad.
Anche in Kosovo e in generale nei Balcani l’influenza italiana non sembra essere poi gran cosa, eppure lì schieriamo truppe dal 1999, attualmente circa 700 soldati al costo di un’ottantina di milioni di euro annui.  Mantenere le navi nella forza antipirateria nell’Oceano Indiano risponde forse in modo più diretto alla difesa degli interessi nazionali così come il dispositivo navale messo in campo per fronteggiare l’emergenza immigrazione clandestina dalla Libia, anche se l’impiego della Marina nell'Operazione Mare Nostrum sta facilitando e incoraggiando i flussi migratori illegali invece di scoraggiarli.

Tra crisi finanziaria ed emergenze ai nostri confini (la Libia è ormai un’altra Somalia e la crisi Ucraina è piena di incognite) come si possono giustificare le centinaia di milioni spesi in Libano, Kosovo e soprattutto Afghanistan? Forse solo con gli impegni assunti con gli Stati Uniti, l’ONU e gli alleati europei. Però francesi, olandesi e canadesi se ne sono andati ormai da anni dall’Afghanistan (dove non resteranno neppure i britannici), i francesi anche dal Kosovo a causa degli impegni in Africa, ma non per questo sono stati emarginati dalla Nato e dalla comunità internazionale.

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Gianandrea Gaiani