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EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON
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Dove va la Francia con Emmanuel Macron

La lezione è chiara: perdendo tempo alla conquista di un partito esistente si perde. Creandone uno ex novo si vince. La grande differenza fra lui e Renzi

È tutto l'establishment europeo (e non solo quello francese)a tirare un gran sospiro di sollievo nel vedere come un suo esponente abbia saputo sconfiggere madame Le Pen nel ballottaggio delle presidenziali francesi.

E con l'establishment festeggiano anche tutti coloro che temevano di assistere alla fine definitiva dell'Unione.

Il Front National esce nettamente battuto: la sua proposta non è riuscita sfondare, anche se il suo risultato complessivo, unito ai voti raccolti dalle altre formazioni di estrema destra e della sinistra più radicale, attesta chiaramente come ciò che viene sommariamente definito "populismo" non sia destinato a scomparire dall'orizzonte politico del continente. Nella sua versione "sovranista" o in quella "comunitaria", il populismo condivide con la proposta di En marche! l'ambizione di superare la tradizionale classificazione destra/sinistra: non tanto sul piano dei valori identitari, quanto sulla capacità di catturare attenzione e consenso presso fasce di elettori molto distanti tra loro in termini di autocollocazione spaziale.

In questo senso, l'operazione Macron completa quanto intrapreso dai movimenti populisti, attraverso la dichiarazione di obsolescenza di quella divisione che proprio nell'originario emiciclo francese aveva fatto la sua comparsa, per poi egemonizzare la topografia politica di tutti i Parlamenti sorti successivamente; e, cosa ancora più importante, determinare le autocollocazioni in termini di identità politica dei cittadini di tutti i Paesi del mondo.

È vero che Emmanuel Macron ha dimostrato che il populismo non si batte provando a scimmiottarlo, a inseguirlo sullo stesso terreno ammiccando ai suoi stilemi di comunicazione, ma semmai rimarcando con audacia e coerenza la propria diversità. È altrettanto vero, però, che la vittoria di Macron segna un altro punto a favore della "democrazia senza partiti": è fuor di dubbio che se fosse rimasto ingabbiato dentro il Partito socialista, del quale probabilmente non avrebbe mai vinto le primarie, non sarebbe divenuto il più giovane capo di Stato francese dai tempi di Napoleone I (primo console a 31 anni).

La lezione di Macron è chiara: attardandosi alla conquista di un partito esistente si perde, creandosene uno ex novo si vince. Che poi si riesca anche a governare è tutto da dimostrare.

Proprio in queste due diverse modalità di interpretare il coraggio sta la differenza tra Macron e Renzi. Il primo ostentatamente europeista, alieno dal populismo e disposto a giocarsi davvero tutto il futuro politico in una corsa solitaria; il secondo molto più tattico e opportunista, che non essendo riuscito a "cambiar verso" all'Italia e all'Europa non è neppure riuscito a cambiar vita lui stesso, ritirandosi, come promesso, dalla politica. Ma sta anche qui la differenza tra due culture e due antropologie, tra ciò che anche nella lingua italiana si dice un comportamento "franco" e uno "fiorentino".

L'Europa è stata al centro della piattaforma di Macron, che ha saputo declinarla insieme al patriottismo francese. Almeno sul piano della comunicazione, ha affermato una versione digitale dell'Europa delle patrie, tanto cara alla tradizione del generale Charles De Gaulle. Ora, sia chiaro: ciò che vale per la Francia non vale automaticamente per l'Europa, per cui non dappertutto sarà facile replicare questa combinazione, in grado di non abbandonare ai "sovranisti" il patrimonio della sovranità nazionale, facendone così un elemento di edificazione e declinazione della costruzione europea.

E ancora una volta, purtroppo, non occorre andar troppo lontano per capirlo: che il sovranismo in Italia venga oggi agitato da chi si era inventato la "Padania" è solo l'ennesima manifestazione della faciloneria melodrammatica degli italiani, i quali troppo spesso confondono il potere con l'autorità e la famiglia con le istituzioni.

Proprio in Italia, del resto, l'attenzione al fenomeno Macron si preannuncia più sfrenata. In parte per la spudorata propensione giapponese di "don Matteo": dopo i completi alla Tony Blair e la camicia bianca alla Manuel Valls, ora abbiano anche "#in cammino!". Che suona assai meno forte e perentorio dell'originale "En Marche!", la versione da oratorio e coccinelle del marziale "Marchons!" della Marsigliese.

Ma, soprattutto, perché l'Italia è l'unico Paese europeo dei sei fondatori originali nel quale il fronte populista può davvero aspirare a vincere le elezioni legislative e persino a esprimere l'esecutivo.

In termini continentali, per passare agli aspetti più problematici, la vittoria di Macron significa anche che la visione proposta dalle élite responsabili delle miserevoli condizioni in cui versa il continente ha prevalso sulle proposte che chiedevano un cambiamento di rotta radicale. Ha vinto la speranza sulla paura, si è detto: è vero solo in parte, perché ha vinto anche la paura verso un possibile "salto nel buio" costituito dalla vittoria di Marine Le Pen.

Quanto, e quanto a lungo, questa sommatoria di speranza e paura costituirà un mix efficace lo scopriremo nei prossimi mesi, man mano che il "macronismo" si declinerà in azioni e ne capiremo meglio le opportunità e i costi creati e, ciò che più conta, la loro distribuzione sociale e generazionale. Non sarà per nulla facile trovare la "quadra" per riportare al centro del progetto europeo il popolo (così da tagliare l'erba sotto i piedi ai populismi) e una concezione di progresso che sappia conservare al suo cuore le grandi conquiste sociali del tanto bistrattato Novecento (così da non ridurre il futuro a un privilegio per pochi), ridando fiato a un sistema economico e politico che sappia essere inclusivo.

Il messaggio all'Europa e per l'Europa è che siamo riusciti a evitare lo schianto e il naufragio, ma occorre ancora capire se una rotta è stata tracciata. Quel che occorre segnalare è come nel suo inevitabile baricentro germanico, i partiti tradizionali sembrano essere già riusciti a riprendere la barra e appaiano assai poco propensi a farsi "macronizzare", probabilmente nella certezza o presunzione di poter addomesticare, cooptandolo, il fenomeno francese. Una qualche differenza la farà il nome del prossimo cancelliere (Angela Merkel o Martin Schulz), ma non nel senso della relazione asimmetrica tra Berlino e Parigi: Macron o non Macron.

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Vittorio Emanuele Parsi

Professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano

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