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Volodymyr Zelensky (Ansa)
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Zelensky: «Per la Crimea meglio una soluzione politica»

Il presidente ucraino cambia passo e in un'intervista apre a una possibile trattativa riaprendo così, a 18 mesi dall'inizio dell'invasione, alla diplomazia

«Quando saremo ai confini amministrativi della Crimea, penso che sia possibile trovare una soluzione politica per forzare la smilitarizzazione della Russia sul territorio della penisola». A dirlo durante un’intervista andata in onda sull’emittente ucraina 1+1, è stato nientemeno che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Il che ha subito fatto drizzare le orecchie a quanti sperano che ci stiamo avvicinando a un possibile negoziato tra Mosca e Kiev sullo status della penisola annessa dalla Federazione Russa otto anni fa o addirittura sulla fine delle ostilità. Ma è davvero così?

Tutti sono da tempo consapevoli del valore strategico, politico e persino simbolico della penisola di Crimea: è uno degli obiettivi principali del conflitto per Kiev, ma allo stesso tempo è anche una conquista irrinunciabile per Mosca. Da lì passa il futuro della regione.

Ma il vero significato delle parole di Zelensky è davvero che «a oltre 18 mesi dall’inizio dell’invasione, il presidente ucraino cerca di riaprire il Paese alla politica e alla diplomazia», come sostiene ad esempio il Corriere della Sera? Oppure, più semplicemente il presidente ucraino si è sentito libero di parlare a braccio agli ascoltatori di una trasmissione televisiva, senza per questo voler dare troppo peso a simili dichiarazioni?

Era insomma un messaggio di pace, un ramoscello d’ulivo teso ai diplomatici russi e destinato alle cancellerie europee? È forse stato stimolato dai buoni uffici di Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei ed emissario del Vaticano, che sta mediando non senza difficoltà una soluzione negoziale nella crisi russo-ucraina? C’entra qualcosa il fatto che la controffensiva estiva non stia producendo i risultati sperati per le forze armate ucraine? Che lo sfondamento delle line russe appare sempre più difficile e che i progressi ucraini sono concreti ma molto limitati? Ancora, che l’obiettivo di raggiungere la costa del Mar Nero e liberare la città-chiave di Melitopol sia lungi dall’essere realizzato?

Può darsi. Ma a dire il vero, convince di più la realtà. E la realtà è l’imminente trasferimento di circa 60 aerei da combattimento F-16 olandesi, norvegesi e danesi all’aeronautica ucraina, ottenuto – questo, sì – dopo mesi di intense pressioni e trattative in prima persona da parte del presidente ucraino. Il quale peraltro si è detto «entusiasta» della cosa. Per bocca dello stesso Pentagono, infatti, l’F-16 prodotto negli Stati Uniti «è la piattaforma ideale per gli ucraini. È multiruolo: può fornire copertura aerea alle truppe, attaccare bersagli terrestri, attaccare aerei nemici e intercettare missili. Ed è disponibile: le forze aeree europee ne hanno molti, così come i pezzi di ricambio e l’F-16 può operare con una varietà di sistemi d’arma».

Dunque, delle due l’una: o il presidente dice una cosa e ne pensa un’altra, o è davvero in corso una «iniziativa diplomatica» segreta che ci condurrà presto fuori dal conflitto. Difficile credere a questa seconda ipotesi, tuttavia. Specie quando gli artiglieri di Kiev cannoneggiano ripetutamente proprio il ponte che collega la Russia alla penisola di Crimea e cercano di fare piazza pulita della flotta russa sul Mar Nero. Ed è difficile crederlo quando appare sempre più evidente che il comando delle operazioni militari ucraine spinga proprio per impiegare al più presto quegli aerei nella convinzione che, come afferma il colonnello Yurii Ihnat, portavoce dell’aeronautica ucraina, «già due squadroni di 12 aerei ciascuno inizierebbero a ribaltare la situazione».

Difficile crederlo, infine, quando ogni altra iniziativa che non sia la guerra combattuta si è rivelata solo illusoria e quando ogni tavolo per condurre le trattative è stato un fiasco: ed è valso tanto per i tentativi diplomatici della Turchia di Erdogan come per quelli della Cina di Xi Jinping (non proprio gli ultimi arrivati, insomma).

Vero è che Zelensky sa fin troppo bene che presto arriveranno le elezioni americane (novembre 2024) e con esse le conseguenti pressioni alleate per cercare di porre fine alla guerra entro quella data. Così come sa che la controffensiva nel Sud-Est non potrà entro quella data condurre alla liberazione dei territori occupati, tantomeno della Crimea e delle province di Donetsk e Lugansk in un sol colpo. E sa anche che gli F-16 non sono quello che gli analisti Usa chiamano «silver bullet», cioè la soluzione finale al problema (anche perché l’F-16 non si è mai scontrato con le difese aeree russe nel mondo reale, per esempio).

C’è invece qualcosa di molto più radicato nella coscienza degli ucraini, che trova l’appoggio pieno della dirigenza politico-militare di Kiev: la certezza che dall’abbraccio con l’Europa e la Nato non si torna più indietro. Semplicemente perché ne va dell’esistenza della stessa Ucraina, della sua anima come della sua economia. A cosa sarebbe valso altrimenti il sacrificio di decine di migliaia di cittadini, morti per difendere la patria dall’invasore? E come potrebbero ricostruire il Paese senza l’aiuto dell’Occidente? Chi garantirebbe loro che consegnare anche una porzione limitata di territori alla Russia non sarebbe l’inizio dello smembramento di tutta l’Ucraina?

Ragion per cui, a riascoltare bene quell’intervista, si capisce piuttosto che Zelensky gioca come sempre con le parole, abile com’è nel mantenere un equilibrismo funzionale nel contempo a non scontentare il suo popolo e a non irritare gli alleati. Ed ecco allora come la frase dipendente «quando saremo ai confini amministrativi della Crimea» che precede la principale «penso sia possibile trovare una soluzione politica», va letta senza disgiungerla da questa. E allora, letta nel suo insieme, quell’asserzione evidenzia semmai il fatto che, per Zelensky, i piani non sono cambiati: l’armata di Kiev ha intenzione di avanzare sino a quel punto, ai confini amministrativi della Crimea, e non pensa di negoziare neanche un minuto o un chilometro prima di aver minacciato direttamente Sebastopoli.

«Oggi si presta la massima attenzione alle operazioni offensive e al rifornimento di armi e di tutto il necessario al fronte», ha infatti puntualizzato Zelensky in quella stessa intervista. Con buona pace (sic!) di quanti credono che arrendersi per Kiev possa essere mai stata davvero una possibilità sul tavolo. Così non è, e probabilmente non lo sarebbe neanche qualora gli alleati dovessero sfilarsi dal continuare il loro sostegno all’Ucraina.

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Luciano Tirinnanzi