Aldo Ferrari: «Erdogan soffia sul fuoco in Karabakh»
Recep Tayyip Erdoğan con Ilham Aliyeva Baku il 25 febbraio 2020 (GettyImages).
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Aldo Ferrari: «Erdogan soffia sul fuoco in Karabakh»

Il professore di Ca' Foscari, massimo esperto di Caucaso in Italia, spiega perché il conflitto nel territorio conteso fra Armenia e Azerbaigian è una minaccia pericolosissima. Un'escalation che potrebbe persino arrivare a coinvolgere Russia e Stati Uniti.


«In Karabakh è in atto un'escalation, alla quale ha attivamente contribuito il sostegno molto forte e molto violento di Recep TayyipErdogan». Il professor Aldo Ferrari è molto preoccupato. Ordinario a Ca' Foscari a Venezia e direttore del Programma di ricerca su Russia, Caucaso e Asia Centrale, è il massimo esperto di Caucaso in Italia. Panorama lo ha intervistato per capire che cosa sta succedendo nel territorio conteso fra Armenia e Azerbaigian.

Erdogan ha esortato l'Armenia a mettere fine all'occupazione dei «territori dell'Azerbaigian». Ma è vero che il Nagorno Karabakh è occupato dall'Armenia?

«No. Affermare che il Nagorno Karabakh sia occupato dall'Armenia intesa come Repubblica armena non è vero. È un falso evidente. Quello che si può dire correttamente è che il Nagorno Karabakh, che era una regione autonoma abitata prevalentemente da armeni in epoca sovietica, dopo il 1991 con la fine dell'Urss si è reso indipendente dall'Azerbaigian e la popolazione azera presente, circa un quarto, è stata cacciata, mandata via».

Occorre distinguere, insomma…

«Perché l'Armenia è uno Stato indipendente universalmente riconosciuto, mentre invece il Nagorno-Karabakh è indipendente, separatamente dall'Armenia, e la sua indipendenza non è riconosciuta da nessuno, neanche dall'Armenia stessa».

Possiamo rapidamente spiegare come si è arrivati alla creazione di questo Stato non riconosciuto?

«Occorre proporre un minimo di antipasto storico. Negli anni Venti, nell'ambito delle politiche sovietiche delle nazionalità, questo territorio, che pure era abitato intorno all'80% da armeni, venne inserito da Stalin all'interno dell'Azerbaigian».

Perché?

«Per ragioni varie, che vanno dalla volontà di conquistarsi i favori dei turchi, sia della Repubblica che si stava costituendo sia di quelli del Caucaso. E invece gli armeni erano considerati più fedeli a Mosca, anche alla Mosca sovietica. Sta di fatto che questa decisione è stata sempre sentita come ingiusta, storicamente e demograficamente, dagli armeni, che sin dall'epoca della Perestrojka hanno cominciato a manifestare contro questo inserimento non voluto nell'Azerbaigian».

E cosa accadde al crollo dell'Urss?

«È scoppiato un conflitto armato che ha visto gli armeni del Karabakh, appoggiati da quelli della Repubblica armena e da quelli della diaspora, sconfiggere sorprendentemente l'Azerbaigian, che era enormemente più grande e popoloso, e conquistarsi un'indipendenza de facto come Repubblica dell'Artsakh, che è il nome armeno del Nagorno Karabakh».

Perché, Nagorno-Karabakh in che lingua è?

«È una cosa assurda: Nagorno è russo e Karabakh è turco. Personalmente non uso mai la definizione Nagorno Karabakh. Io in italiano sto cercando di introdurre la dizione Alto Karabakh, che corrisponde a Karabakh di montagna. Nagorno Karabakh non significa nulla oggigiorno. Aveva senso in epoca sovietica, oggigiorno non ha più alcun significato. Tanto più se viene staccato Nagorno da Karabakh, senza un trattino. È un pasticcio linguistico, non facile da decifrare per i non addetti ai lavori, ma è un pasticcio».

Nel 1994 il territorio è divenuto indipendente…

«Sì, non in seguito a una pace ma in seguito a un armistizio. E lo rimane ancor oggi, benché la sua indipendenza non venga riconosciuta da nessuno, neppure dalla Repubblica d'Armenia».

Ma oggi che cosa sta succedendo?

«Gli scontri di questi ultimi giorni vanno visti in un'ottica non dell'oggi, ma nel fatto che dopo 26 anni lo status del Nagorno-Karabakh non ha conosciuto nessuna definizione ufficiale. Esiste un armistizio, che però viene continuamente violato da scontri al confine con l'Azerbaigian con frequenza quasi quotidiana. Ce ne furono di molto gravi nell'aprile 2016, come molto gravi sono stati quelli di solo due mesi fa: 12/14 luglio 2020».

E adesso ci risiamo…

«L'aspetto veramente grave è che per la prima volta si registrano scontri armati molto violenti a distanza di due mesi l'uno dall'altro. Questo sembra implicare, assieme a numerosi altri fattori di complicazione, un oggettivo aggravarsi della situazione sul campo. Il conflitto del Karabakh è inserito fra quelli cosiddetti congelati. Ora appare possibile che, da congelato, questo conflitto si riscaldi e torni a essere attivo e combattuto. Un'opzione che speriamo non si avveri, ma indubbiamente il quadro sul terreno e nello scenario internazionale si è complicato».

Di fatto è in atto un'escalation.

«È in atto un'escalation sicuramente sul campo a livello militare, ma è un'escalation anche sul piano della retorica nazionalista, che soprattutto negli ultimi mesi da parte dell'Azerbaigian è diventata molto aggressiva. Bisogna ricordare che il 15 luglio ci fu a Baku una manifestazione nazionalista, apparentemente non comandata dal governo azerbaigiano, che chiedeva a gran voce la riapertura della guerra addirittura con l'Armenia. Non solo con il Karabakh, ma proprio con l'Armenia. E nei giorni successivi sono scoppiati tafferugli in mezzo mondo, dalla Russia, all'Europa agli Stati Uniti, fra diaspore armene e azere. C'è stata una vera e propria escalation, alla quale ha attivamente contribuito il sostegno molto forte e molto violento di Erdogan».

Già, Erdogan: che ruolo ha?

«Il suo sostegno, verbale ma esplicito, ha rafforzato in Azerbaigian la volontà di riprendersi ciò che è stato loro tolto. Non bisogna dimenticare che l'unico Stato che hanno interesse alla ripresa delle ostilità è l'Azerbaigian. Gli armeni hanno già ottenuto territorialmente quello che volevano e anche di più. Ad avere idee revansciste in questo momento è solo l'Azerbaigian».

Che rischi si corrono?

«La situazione sul terreno è oggettivamente pericolosa. Vedendo che per via diplomatica non riesce a riottenere i territori perduti, Baku sempre più spesso con una violenta retorica nazionalista minaccia il ricorso alla guerra. Il sostegno verbale di Erdogan può rafforzare una volontà che però è già presente in Azerbaigian, a prescindere dalle parole pur di fuoco del presidente turco».

Ma che interesse ha Erdogan a fomentare questo revanscismo?

«L'Azerbaigian, come la Turchia, è uno Stato turco. Sebbene gli azeri siano prevalentemente sciiti e non sunniti, esiste una forte solidarietà turca. Ma il sostegno di Ankara è anche concreto: già dal 1993 la Turchia ha chiuso unilateralmente le frontiere con l'Armenia, esercitando una sorta di blocco sul Paese confinante e pregiudicandone la già debole economia. Non si può poi dimenticare che Erdogan, in quanto presidente della Repubblica turca, è l'erede dello Stato Ottomano che ha annientato gli armeni nel territorio dell'attuale Turchia nel 1915».

Ancor oggi, Ankara non ha riconosciuto il genocidio armeno.

«La Turchia ha cambiato regime, ma a distanza di 105 anni non ha riconosciuto il genocidio degli armeni. E occupa gran parte del territorio storico dell'Armenia, dopo averne fisicamente eliminato la popolazione. Quindi le parole di Erdogan fanno particolare impressione perché sembra (e così sicuramente è interpretato dagli armeni) che voglia portare a termine il lavoro iniziato nel 1915, con l'aiuto o con l'appoggio dell'Azerbaigian. È chiaro che c'è molta retorica, ma immaginando di essere un armeno indubbiamente vengono i brividi lungo la schiena a sentire Erdogan dire certe cose».

I brividi vengono anche ai non armeni…

«Finché si rimane nell'ambito delle parole, le parole fanno male. Ma minacciare una guerra non è comunque compiere un genocidio. Stiamo parlando del presidente di un Paese che, almeno per riguardo di ciò che è avvenuto in passato, dovrebbe avere tutt'altro atteggiamento».

Parrebbe il minimo.

«Direi che questa violenza retorica di Erdogan, che peraltro conosciamo in altri contesti, quand'è applicata all'Armenia è particolarmente grave e inammissibile. Però la politica si fa con tutti i mezzi, anche con questi. Il rischio è che diano ulteriore legna al fuoco che il presidente dell'Azerbaigian Ilham Aliyev minaccia di accendere ormai regolarmente. L'Armenia per la Turchia non è un vicino qualsiasi. Ci sono troppe storie dolorose che rendono questo caso particolare».

Nervi scoperti…

«Certo. Poi c'è da dire che molto spesso Erdogan fa bau bau, come quando minaccia ritorsioni terribili verso i Paesi che riconoscono il genocidio armeno, ma in realtà il bau bau serve a poco. La Germania lo ha riconosciuto e non ci sono state conseguenze e lo hanno riconosciuto di recente anche gli Stati Uniti con Donald Trump. Al di là dell'indignazione iniziale, non è che la Turchia possa fare più di tanto di fronte ad attori più forti di lei. Ma nei confronti della piccola e debole Armenia la sproporzione è tale che inizia a essere davvero preoccupante».

È Golia contro Davide?

«Sì, ma un Golia che ha già picchiato ferocemente Davide qualche tempo fa. È una situazione davvero spiacevole, anche perché il solo Azerbaigian è molto più grande e popoloso, oltre che enormemente più ricco, dell'Armenia. Sentirsi schiacciata da questi vicini, entrambi molto più grandi e molto più potenti, è per l'Armenia qualcosa che forse all'estero non si percepisce. È veramente una questione di sopravvivenza fisica. Per una nazione così piccola, che ha già subito un genocidio dagli stessi attori un secolo fa, è una situazione davvero pericolosa».

Lei prevede che possa degenerare in una guerra?

«La guerrra la stanno già combattendo su scala piccola l'Armenia e l'Azerbaigian. Il rischio è molto alto perché l'Armenia fa parte della Csto, l'alleanza militare a guida russa, che teoricamente imporrebbe alla Russia di sostenere l'Armenia contro l'Azerbaigian. Un Paese alleato della Turchia che fa parte della Nato. Il rischio teorico è altissimo. Ma per fortuna è talmente grande da rendere impensabile, in nome della Realpolitik, un'estensione del conflitto che metta insieme Russia e Turchia. Ma proprio perché la questione è così delicata, sarebbe opportuno che la comunità internazionale prendesse la minaccia seriamente».

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Elisabetta Burba