Venezia muore di troppa vita
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Venezia muore di troppa vita

La città si spopola ma i turisti la invadono. Sovraffollamento, turisti selvaggi. Per l'Unesco rischia di uscire dai siti patrimonio dell'umanità

Più annunciano la sua morte e più la vita la sommerge. Di sicuro il problema di Venezia non è la morte che da sempre la coccola e la conserva, ma la vita che oggi la soffoca e la spegne. Sono infatti 34 milioni i turisti che ogni anno calpestano Venezia, ma solo 12 milioni quelli che la città può sopportare. Ed è vero che il centro storico, ridotto ormai a 54 mila abitanti, si sta lentamente asciugando perdendo il suo carattere e la sua memoria, ma è provato che gli edifici stanno esplodendo di etnie e di identità frullate: 10 milioni i pernottamenti lo scorso anno, 2400 strutture alberghiere, + 517 % alloggi dal 2015 al 2016.

Venezia dunque non sta morendo come ha scritto l’archeologo Salvatore Settis il 29 agosto sul New York Times, ma forse sta «vivendo troppo» come racconta il fotografo veneziano Gianni Berengo Gardin che ai turisti prima di farli accedere in Laguna sottoporrebbe un «esame per valutare il loro reale desiderio di scoprire Venezia e di dimenticarsi tra calli e sestieri».

Nessuno sa come regolare i flussi straordinari di una città che oggi non è più sospesa tra le acque ma annegata nei vapori delle sue cucine. Così come il cibo, il bisogno di Venezia cresce al punto che non è sufficiente solo una. Guido Moltedo in un libro divertito e fantasioso “Welcome to Venice” ha provato a contare (100) le tante copie di Venezia, patacche decadenti e ponti di cartone, che sono sparse per il mondo, luoghi di stravaganza e ricovero di nostalgici.

In Usa, oltre Venice in California fondata nel 1905 e quindi la più vera tra le riproduzioni fasulle, c’è una Venice in Louisiana, dove è possibile mangiare gatto fritto, e un’altra in Florida dove il giornale della città si chiama “Gondolier Sun”. E sono 22 in Brasile, 8 in Giappone, 2 in Cina a Hangzhou e Zhouzhuang, una a Ganvié nel Benin, una a Hoi An in Vietnam, una Xochimilco in Messico, una a Udaipur in India. È vero sicuramente come denuncia Settis che Venezia rischia la «disneyficazione» ma senza neppure incassare i profitti del biglietto, le royalties che Moltedo, per provocazione, chiederebbe «autorizzando la clonazione di Venezia» e risolvendo così l’ormai storico nodo sovraffollamento «perché anche la frase “Venezia muore” è un prodotto che gli storici dell’arte riciclano e vendono all’estero».

Eppure non solo non c’è ragione per non credere a Settis che su Venezia ha scritto un libro speciale come la città, “Se Venezia muore” edito da Einaudi. L’articolo di Settis ha rafforzato e motivato le attenzioni dell’Unesco che da due anni monitora Venezia, la studia con i suoi specialisti, e che intende escluderla dalla lista dei suoi patrimoni, abbassandone il rating o forse aumentandone, come sempre avviene quando si profetizza la fine di un mondo, il desiderio di vederla e invaderla.

Il vicedirettore generale alla Cultura dell’Unesco, Francesco Bandarin, «un italiano ma di origine veneziana», dice che quando torna da Parigi ha l’impressione di non sentirsi a Venezia ma «in un villaggio turistico, non una città ma un litorale». Dunque depennerà Venezia dalla lista dei siti patrimonio dell’umanità? «È un percorso lungo che finirà tra un anno. L’Unesco non dà bastonate ma consigli. Venezia non ha solo un problema di pulizia ma di polizia. Il rischio è che la politica della città venga fatta non dai sindaci ma dai prefetti».

Neppure Bandarin riesce a spiegare la sfrenatezza del turista veneziano che il sindaco Luigi Brugnaro, un uomo ruvido e severo, vuole risolvere con la cella, e procedimenti Daspo, divieti d’ingresso, come gli ultras. A Venezia i 50 vigili urbani non bastano a controllare il turista selvaggio, che è un’altra forma di acqua alta, che si libera per strada, si denuda e imbratta forse perché, come diceva Leonardo Sciascia, per rimanere nella storia gli imbecilli hanno solo un modo: deturparla. In città ci sono 11 bagni pubblici ma «a piazzale Roma e all’Accademia i due più funzionali sono a pagamento» racconta Giovanni Leone, architetto che parla del territorio come un’esperienza nello spazio e delle case di Venezia come il suo prolungamento «perché il vero patrimonio di Venezia non sono le sue pietre ma il modo in cui le pietre di Venezia si abitano. Qui per orientarsi il miglior modo è disorientarsi, gettare le mappe. Non basta visitare piazza San Marco e il Ponte di Rialto. Venezia si può capire solo come insieme».

Leone racconta che Venezia dal 2013 ha perso un’occasione con la legge regionale di locazione turistica che in pratica ha permesso a tutti i residenti di reinventarsi albergatori senza chiedere in cambio un progetto, «una quota di pensiero» che chi accoglie deve sempre trasmettere a chi ospita. La legge ha eccitato l’acquisto di ogni metro utile senza obblighi di riqualifica e limiti precisi. Bandarin va oltre. Per lui i B&b sono «un’idra». passati dai 96 del 2000 ai 3128 del 2016. Ma poi c’è il sommerso che è il vero guasto di Venezia. Per “Italia Nostra” sono 6000 le residenze di privati che vengono affittate. Questi nuovi imprenditori sono più pericolosi degli ottomani che minacciavano la Serenissima nei secoli d’oro: sfuggono al fisco, si nascondono tra le corti, si mimetizzano sotto i portici e quando vengono scoperti - come nel caso dei coniugi che affittavano la propria casa a 25 mila euro per nove notti e che Gian Antonio Stella ha magnificamente smascherato sul Corriere – usano l’estetismo come i teppisti le mazze, si credono lord e non evasori.

A Venezia si è giunti al paradosso che le entrate della tassa di soggiorno (1.50 euro circa per turista) non bastano a soddisfare le uscite per smaltire i rifiuti, offrire i servizi. Venezia come un’impresa produce 270 milioni di ricavi ma spende 320 milioni per costi ambientali. Fabio Carrera, un docente d’ingegneria al Politecnico di Worcester nel Massachusetts, ma veneziano anche lui, ha studiato i flussi turistici e offerto numeri, studi sulla densità, sulla capacità di capienza di piazza San Marco che per il docente è di 15000 unità. In questi giorni Venezia ha ingoiato 74 mila turisti al giorno, una calamità che già spaventava lo scrittore russo Iosif Brodskij uno che a Venezia veniva solo d’inverno perché «qui in estate si può venire solo sotto la minaccia di una pistola. Non c’è solo il caldo ma anche le violente emissioni d’idrocarburi e ascelle. Agli uomini ragionevoli dovrebbero dare i nervi tutte le mandrie in pantaloncini».


A Venezia, in estate, si può venire solo sotto la minaccia di una pistola. Non c’è solo il caldo ma anche le violente emissioni d’idrocarburi e ascelle. Agli uomini ragionevoli dovrebbero dare i nervi tutte le mandrie in pantaloncini

ll problema di Venezia è l’impraticabilità come avviene in Francia sull’isola di Le Mont Saint-Michel, in Spagna, a Granada, dove per visitare l’Alhambra è necessario prenotarsi o nel Gran Canyon dove per avere il privilegio di passeggiare sulla terrazza panoramica occorre pianificare il proprio arrivo. Allora chiudiamo Venezia? «Non dico questo ma più del Comune è il governo ad avere il compito di regolare, di ragionare, di frenare l’assedio incontrollato dei bottegai nei centri storici. Il rischio è la giungla» avverte Bandarin le cui parole ricordano quelle di Indro Montanelli che per Venezia chiedeva di reintrodurre la carica del Magistrato delle Acque. Per il ministro della Cultura, Dario Franceschini, chiudere Venezia è un’idea impercorribile e ripete che il sovraffollamento delle nostre città storiche, non solo di Venezia, è il disagio della quantità, senza però godere dei benefici della quantità e senza risolvere i disagi.

Venezia più che morendo si sta quindi traducendo in una eccezionalità normale, un po’ come avviene con i book shop che moltiplicano l’opera ma ci fanno dimenticare la specialità, rimpiccioliscono invece d’ingrandire. Eppure Venezia non si può museificare, transennare, tanto meno farne una città dove si entra per censo o ripopolare iniettando abitanti e comunità. Venezia non può essere come la desiderava Woody Allen «il posto più romantico del mondo ma solo quando sono da solo». «Tuttavia Venezia può e deve chiedere di più ai suoi turisti, ai crocieristi» dice Bandarin che introduce così il problema delle grandi navi che attraccano al porto pagando 27 mila euro al giorno all’autorità portuale, l’unico soggetto, dice sempre Bandarin, che a Venezia «sembra saper fare i conti. E non entro nella polemica sull’ingresso o meno. Nel mondo tutti pensano che sia una follia averle nel bacino di San Marco».

Berengo Gardin, che lo pensa e che ha fotografato le grandi navi imbrigliandole con la sua macchina fotografica (Venezia e le grandi navi, Contrasto), non solo è frastornato da questi ciclopi di ferro, ma ultimamente anche dagli zaini dei turisti che «ormai sono più pericolosi delle auto». Anche Berengo Gardin riconosce che a «nessuno si può impedire il diritto di vedere Venezia ma non può essere un dovere vederla. Perlomeno chiuderei, con una legge speciale, tutti i negozi di maschere che vengono fabbricate in Taiwan e spacciate a Venezia. La verità è che sono disarmato pure io quando mi chiedono come proteggere Venezia. Con soddisfazione riconosco che è un bel guaio che per fortuna non sono io a dover risolvere». Come si vede Venezia non sta morendo, ma è il suo corpo a essere sempre vegliato nelle stanze italiane, nelle università, nelle aule del parlamento, della Regione, del Comune, di Enti, Autorità, Agenzie… Il suo stato di salute è una festosa e crassa agonia. È un eccesso di nascite e non un lampo di morte.

Venezia ha infatti continuamente acceso pensieri, a partire dai futuristi che contro questa città passatificio, «estenuata e sfatta da voluttà secolari», invocavano la distruzione e «il regno della divina luce elettrica». E ancora sbizzarrisce gli architetti con le loro strampalate fantasie, agita gli imprenditori, infiamma i polemisti, scioglie i politici, esalta i corruttori e gli sciacalli che sempre sulle carcasse e sulle rovine si ritrovano. Forse per salvare Venezia bisognerebbe dunque farne una città impossibile e meravigliosa come Atlantide, Alessandria, Tenochtilitan, Avalon, Mu, Shangri-La. Un sogno che si fa di notte e si dimentica di mattina. Come faceva Marco Polo ne “Le Città Invisibili” di Italo Calvino. Interrogato da Kublai Khan non solo ne taceva ma rifiutava di parlarne perché «Venezia ho paura di perderla tutta in una volta se ne parlo. O forse, perché parlando di altre città, l’ho già perduta poco a poco».

 


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Carmelo Caruso