Un detective da marciapiede
© Mario Dondero
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Un detective da marciapiede

Una donna smarrita, un investigatore e un esercito di clochard. La formidabile storia di Arti che ricorda "Miracolo a Milano"

«Mi hanno detto “fai un miracolo ma trovala”». E a Milano, miracolo, è pure un film di Vittorio De Sica che racconta il mondo dei clochard… «Anche in questa storia i protagonisti sono loro. Senza quell’esercito di barboni non l’avrei mai ritrovata ed è merito loro se Ariane non si è mai davvero perduta».

Da marzo scorso la famiglia inglese di Ariane, una donna di 51 anni, non riceveva notizie e si era rivolta ai funzionari di Scotland Yard per ottenere un aiuto e avere risposta. «E invece, alla fine, quella giusta, la possedeva solo un accattone». A Milano, il miracolo lo hanno rifatto gli straccioni e Arti, un agente della Skp, società di investigazione fondata da Luca Antonio Tartaglia, un ex poliziotto che ha accettato l’incarico impossibile di ritrovare un’invisibile. «E di lei sapevamo solo che si chiamava Ariane, che da anni viveva in Italia e poi certo avevamo una foto ma inizialmente non avevamo neppure un indirizzo» racconta Tartaglia che crede sì nel metodo scientifico ma ancora di più nelle relazioni «e qui intendiamo solo quelle umane».

Dice insomma che l’indagine è stata un capolavoro di carezze, una rubrica di malinconie ma soprattutto una catena di complicità. «E forse, un viaggio irripetibile nel sottosuolo di Milano». A compierlo è stato un uomo di 43 anni di nome Arti, albanese, un passato nelle forze di polizia di Valona e padre di Nicholars, 9 anni, anche lui determinante per risolvere il “caso”. «Sono stato costretto a trascinarlo. Alla fine, come il papà, si è messo a chiedere: “Conoscete questa signora?”». La signora si chiama appunto Ariane, ed è ancora una bella donna che Arti mostra in foto. Quattro le lingue parlate, un viso morbido e chissà quali fantasmi. Dal 2014 ha scelto di vivere in Italia. Si è stabilita a Milano, ha preso in affitto un piccolo appartamento in un residence di corso Italia. Viveva anonimamente. Non era milionaria. Qualcuno lo ha scritto ma non era vero.

«E non era neppure vero che la famiglia l’avesse abbandonata, anzi, non ha smesso di cercarla» spiegano alla Skp dove ne hanno prima riscostruito il passato e poi provato ad afferrarne il presente. Come tanti inglesi, Ariane all’Inghilterra aveva preferito l’Italia. Raccontano che ne provasse un amore smisurato. In questi casi si dice “un amore da perdere la testa”. «Non so se l’avesse persa ma è chiaro che quando l’ho ritrovata non era lucida» dice oggi Arti che “l’indagine” è finita. Ariane non lavorava. La famiglia le ha lasciato cercare la propria identità. A marzo scorso, però, con la famiglia, ha interrotto qualsiasi contatto. Ha spento il telefono. Non ha avuto bisogno di dire “esco” dato che a Milano nessuno le avrebbe chiesto “torni?”. È scomparsa. Non è stata la sola. Anche il residence, in cui aveva vissuto, ha chiuso. La sorella ha provato a contattarla. Nessuno le ha mai risposto, nessuno l’ha mai richiamata. Ne ha denunciato la scomparsa. A settembre si è poi rivolta alla Skp. L’agenzia da quel momento ha iniziato la ricerca.

«Abbiamo prima chiamato ospedali, dormitori, obitori. Ma nulla». Non era viva per i morti ma era morta per i vivi. «A quel punto abbiamo compreso che era necessario cercarla sulla strada». Alla Skp pensano che il più adatto sia Arti. Ha il volto di chi mangia fuori orario, di chi dorme poco e di chi vede molto. «In Albania, sono scampato a tre attentati della criminalità». Arti comincia dalla stazione centrale. Uno scrittore sosteneva che ci fossero solo due modi per cambiare vita: vincere al casinò o salire su un treno. Non c’è ricerca di persone scomparse che non inizi da una stazione. «Ma la stazione è anche il miglior modo per perdersi. Avevo bisogno di informazioni e invece venivo fermato dagli sbandati che volevano vendermi qualsiasi sostanza».

Per tre giorni, Arti setaccia le vie intorno alla stazione centrale. Dice che in quei giorni, rivolto ai suoi superiori, abbia pronunciato la frase: «Non posso fare miracoli!». Forse lo hanno sentito. In agenzia, la sorella comunica l’ultimo di Ariane. A mancare, però, questa volta, è il residence che, come detto, dalla scomparsa alla denuncia, i proprietari hanno sbarrato. Se c’è una possibilità di trovarla l’unica è mescolarsi tra i clochard. Arti si mette a camminare. Si riempie le tasche di sigarette, scambia il denaro in spiccioli per fare la carità. A ciascun clochard offre caffè in cambio di una dritta. Dopo un paio di giorni riesce a decifrare la loro geografia. Comincia a ricordarli. Li cataloga per parchi, panche, portici. «Il clochard prende il nome del monumento che occupa. È un po’ come l’acqua che prende la forma che le dà il recipiente ma sempre invisibile rimane». Arti dice che i clochard di Milano hanno una loro distribuzione e che si muovono a gruppi e che hanno perfino un orologio inverso e curioso ma non per questo meno regolare e preciso. «Quando i milanesi finiscono di lavorare, loro ne iniziano uno speciale». Costruiscono ripari. Tra i clochard esiste pure un’aristocrazia. È quella di chi assembla tende. Arti rivela che il popolo dei clochard li canzona così: «Vuoi farti la villa?».

Arti si introduce nella città di margine come gli antropologi nel metrò che pretendono di spiegare la contemporaneità. «E però, non ho mai letto un libro chiamato “Un antropologo tra i clochard”. E credimi, non voglio alzare il dito. Io sono uno dei tanti che il dito lo ha sempre alzato per indicare ai clochard di cambiare strada». Scopre che il loro è un disordine ordinatissimo. Si accorge che tra i clochard è possibile individuare una età media, «quarant’anni circa», che tutti si conoscono tra di loro e che alcuni si sono perfino inventati un servizio di vigilanza notturna. Insomma, tra i miserabili c’è pure il miserabile che si prende cura dell’ultimo. Pur di trovare Ariane ne ascolta le storie. Sono biografie di famiglie scollate. Di uno, dice che ogni tre mesi lascia Modena e viene a fare il clochard a Milano. In pratica è un senzatetto stagionale. «Ma il vero paradosso è che non hanno famiglia ma parlano sempre di famiglia: non sanno starci ma tutti dicono che bisogna tornarci». Lo scrittore Cesare Pavese, che viveva da randagio, pensava che una famiglia e una casa occorresse possederla anche solo per parlarne male. Pure Arti ritorna. In corso Italia, in quella che è stata l’ultima casa di Ariane. Qui interviene la provvidenza.

Arti si ferma di fronte a un gelataio. Quando entra è pomeriggio. Non ottiene informazioni utili ma mentre esce si imbatte in un parrucchiere. Interroga pure lui. Ormai lo fa per consuetudine. Il parrucchiere guarda la foto e riconosce la donna. È il primo. Si chiama Juan e ad Ariane aveva pettinato i capelli. «Dunque continuo. A piedi». Arti si incammina verso via Santa Sofia. Si ferma all’hotel Canada. «Saluto. Domando. Ma mi rispondono di non ricordare. Entro in un altro hotel. Ma anche in questo, i dipendenti, sostengono di non averla mai vista». Sono le 23 e prosegue verso via Francesco Sforza. Piove. A pochi metri c’è il Policlinico di via San Barnaba. Entra pure lì. Ma nulla. Adesso è Arti che si trascina come uno dei suoi clochard fino a piazza San Nazaro in Brolo. È una delle tante piccolissime piazze di Milano. Sotto alcuni alberi dormono altri senzatetto.

Mostra ancora la foto. Uno la riconosce. Gli dice che la donna che cerca si faceva chiamare “la francese” e che il miglior modo per trovarla è quello di dirigersi al McDonald’s di piazza San Babila. È lì che ogni mattina i clochard si incrociano. Puntano ai bagni. Poi si disperdono. Ma, intanto, sono le due di notte. «Dormo un paio d’ore in auto. Alle cinque continuo la mia ricerca sempre fra le vie del Duomo e San Babila». Dove Arti sosta per ore. Nella famiglia dei barboni, un’altra categoria è quella degli invalidi, sentinelle per sventura. Arti si affida anche a loro. Al solito offre delle monete. Ma questa volta se la vede rifiutare dopo aver mostrato la foto e spiegato il motivo della domanda. «Trovala, non serve che mi lasci dei soldi». Alle 10 di mattina del giorno dopo, ad accompagnare Arti si aggiunge pure il figlio. Fa lo stesso verso del padre. Funziona. In via Vittorio Emanuele, incontrano un barbone dalla lunga barba bianca. Lo fermano. Arti dice che sembrava un profeta. Di certo, ricca di sapienza è stata la sua risposta: «La troverai». Dove? «Vicino al mango o forse in tribunale». «Si riferiva naturalmente al negozio Mango di via Vittorio Emanuele dove mi precipito ma dove non la trovo». Insieme a Nicholars, interroga anche gli operatori dell’Opera Francescana e della Croce Rossa. Pure loro fanno girare la foto. Nessuno, però, dice di averla mai vista. Non rimane che il tribunale.

È un’opera progettata dall’architetto Marcello Piacentini. Tutti gli italiani hanno visto, almeno una volta, il suo ingresso. Nessuno sa che di fronte, dal 1995, Vito manda avanti il suo chioschetto di fiori. Chiunque, quando passa da quella via, trova più conforto tra i suoi fiori che tra i pilastri del palazzo di Giustizia. È stato l’ultimo a cui Arti si è dovuto rivolgere. Da sei mesi, Ariane, la donna scomparsa, viveva sopra una panchina a pochi passi da quel chioschetto. A volte urlava, delle altre raccoglieva le cicche per terra. In estate ha vissuto di mele e pesche, quelle che Antonio Arnaù, proprietario di un banco di frutta, le porgeva. Arti ha riportato il figlio a casa. Poi dice di aver aspettato la notte. Senza che Ariane lo sapesse, l’ha attesa. Prima lungo le strade del tribunale, poi lungo San Babila fino a quando, all’una e cinquantatre, l’ha sorpresa dormire sulle grate di piazza Beccaria. Ha chiamato la polizia. È intervenuta. «Rapidamente». Da Londra è arrivata la sorella. Di mattina, dei medici, hanno provato ad aiutare Ariane. Le hanno chiesto perché fosse scomparsa. Hanno ricevuto delle risposte sconnesse. È stato inutile chiedere altro. Sono passate alcune settimane da quella notte. Ariane non ha voluto lasciare l’Italia. A sua sorella non è rimasto che accettarne la decisione. Arti quella stessa mattina ha telefonato a suo figlio. «È stato il suo primo caso». Dal giorno in cui ha ritrovato Ariane, ha preso l’abitudine della carità. Ariane, invece, abita adesso in un albergo di Milano. Ha cambiato i vestiti, ha ordinato i capelli. A volte torna di fronte al palazzo di giustizia e si siede sulla stessa panchina. Vito, il fioraio, dice di averla rivista. «Aveva un vestito nuovo, un trolley rosso. Si è fermata per delle ore. In silenzio. Poi ha chiamato un taxi ed è andata via…».


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Carmelo Caruso