Tamponi: perché in Veneto non c'è carenza di reagenti
L'ospedale di Padova (Massimo Bertolini/NurPhoto/Getty Images)
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Tamponi: perché in Veneto non c'è carenza di reagenti

Inchiesta sulla pandemia in Italia - TERZA PUNTATA

  • Panorama ha condotto un'indagine approfondita per capire come mai la regione più ricca d'Italia è stata sopraffatta dal coronavirus. L'inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 12 maggio.
  • Terza puntata: L'ospedale di Padova ha scorte per processare 1,5 milioni di tamponi. Merito di una macchina voluta dal professor Crisanti. E di amministratori lungimiranti, che hanno preferito non legarsi troppo alle industrie.

È il problema del momento: trovare i reagenti per processare i tamponi. Il 30 aprile il governo ha detto di aver già inviato alle regioni 2,7 milioni di tamponi e di avere intenzione di mandarne altri 5 milioni entro la fine di giugno. Ma tali forniture sono circoscritte ai bastoncini con cui vengono prelevati i campioni di saliva ai pazienti. E non comprendono i reagenti chimici necessari per poi processarli in laboratorio.

Ma perché mancano questi reagenti? A Roma come a Milano, la risposta è sempre la stessa: essendoci un'altissima domanda in tutto il mondo, l'offerta scarseggia. Eppure c'è una regione che dispone di tutti i reagenti di cui ha bisogno: il Veneto. Anzi, ne ha ampie scorte. «Noi non abbiamo mai avuto problemi con i reagenti» spiega a Panorama Andrea Crisanti, il virologo rientrato in Italia sei mesi fa dall'Imperial College di Londra per occupare la cattedra di Microbiologia all'università di Padova, il cui laboratorio è il centro di riferimento per la Regione Veneto sul Covid. «In questo momento abbiamo scorte sufficienti per processare 2,5 milioni di tamponi».

E perché i laboratori delle altre regioni non li hanno? «Perché, per ottimizzare i margini e ridurre i costi, i laboratori analisi degli ospedali hanno scelto sistemi che processano i tamponi con macchine a circuito chiuso, in cui si deve spingere solo il bottone. Noi invece abbiamo macchine a circuito aperto, per cui i reagenti li mettiamo noi» spiega il professore, considerato l'ideatore del modello veneto di lotta al coronavirus. «Le macchine chiuse funzionano solo con i reagenti forniti dalle aziende produttrici. Funziona così: io sono la ditta X che costruisce la macchina Y e ti dico che per fare i tamponi devi usare solo i reagenti miei».

Le macchine a circuito chiuso, insomma, hanno delle schede che ne vincolano il funzionamento allo specifico kit fornito dal produttore. «Molte volte, queste macchine vengono date in comodato gratuito o a un costo molto basso» spiega Luciano Flor, direttore generale dell'azienda ospedaliera di Padova. Un po' come per le stampanti, che i produttori vendono a poco, ma su cui guadagnano vendendo a caro prezzo le cartucce.

«Queste macchine fanno vari tipi di diagnosi, ma hanno bisogno di kit specifici» continua Flor. «Anch'io ne ho una, che è straordinaria perché richiede poco lavoro umano, ma è ferma perché non trovo in commercio i reagenti specifici per il coronavirus. Tutte le nostre altre macchine sono aperte: cioè funzionano per qualunque indagine diagnostica. Cioè non hanno bisogno di kit specifici per i singoli virus».

Aggiunge Daniele Donato, direttore sanitario dell'ospedale di Padova: «Noi non abbiamo carenza di reagenti perché le nostre macchine, a circuito aperto, non sono legate ai reagenti dei produttori. Meno ci si lega all'industria, più si è autonomi». E meglio vanno le cose.

L'autonomia dalle aziende produttrici di reagenti: è questa la chiave che ha permesso al Veneto di vincere la battaglia dei tamponi. «Il sistema che ci permette di continuare a processare tamponi» spiega Flor «è composto da tre macchine: estrattore, pipettatore e amplificatore. Questa scomposizione prevede molto lavoro manuale, ma ci consente di usare reagenti che potremmo definire universali, cioè non specifici per un singolo virus. Se dobbiamo utilizzarle per il coronavirus, le tariamo e le calibriamo per estrarre le particelle dell'Rna che sono del coronavirus. Poi mettiamo in contatto le particelle con un reagente attraverso la seconda macchina, il pipettatore, dopo di che le mettiamo nella terza macchina, l'amplificatore, che mette in evidenza la presenza o meno del virus».

Questo sistema è incentrato su un super pipettatore: una macchina americana che, velocizzando il processo dei tamponi, ha permesso al Veneto di vincere la battaglia contro il Covid-19. Il suo costo? 304.000 euro, Iva compresa. L'intuizione di usarla per eliminare il collo di bottiglia nell'analisi dei tamponi è venuta al virologo Crisanti. «Erano i giorni più neri dell'epidemia» ricorda Luciano Flor. «Gli chiesi: "C'è un modo per fare più tamponi?" Allora ne processavamo 1.200/1.300 al giorno. Crisanti si ricordò di questa macchina, che veniva usata per fare screening di farmaci all'Imperial college di Londra e pensò che poteva essere adattata a questo scopo».

Mai intuizione fu più giusta. Prodotta dall'azienda californiana Beckam Coulter, la macchina Labcyte 525 è stata ordinata il 23 marzo. Il 26 marzo è stata consegnata. «È stato un colpo di fortuna» ammette Flor. «Era una demo, nuova e perfettamente funzionante. Probabilmente non sarebbe andata così se avessimo dovuto aspettare che ce la portassero direttamente dalla fabbrica in California. Abbiamo impiegato alcuni giorni, lavorando anche sabato e domenica, per calibrarla. Il primo aprile ha cominciato a funzionare. Un successo: la macchina che avevamo faceva 96 tamponi in un'ora e mezzo, questa ne fa 384 in 10/15 minuti. Con i due estrattori nuovi che mi arrivano lunedì saremo in grado di farne 8/9.000 al giorno». E non è tutto: poiché miniaturizza tutto, la macchina californiana usa un quinto dei reagenti rispetto alle altre. «Ci ha fatto risparmiare l'80% dei reagenti» aggiunge Crisanti. «Ecco perché possiamo processare ancora 2,5 milioni di tamponi».

Era stato il direttore generale Flor a fare ampie scorte. «Quando a fine febbraio si mormorava che a causa del coronavirus ci sarebbe stata una crisi dei reagenti, ne ho ordinato quantitativi per quasi due anni» spiega. E aggiunge, ridendo: «Insomma, io ho comprato la macchina, ho fatto il pieno di reagente e ho riempito il bagagliaio di taniche di reagente».

Una scelta lungimirante... «Con il senno del poi sì» ammette Flor. Ecco perché la Labcyte 525 della Beckam Coulter è diventata l'oscuro oggetto del desiderio di direttori sanitari e assessori regionali, microbiologi e responsabili di laboratorio. «Ora tutti la vogliono. Ma, che io sappia, nessuno riesce a comprarla» conclude. «Ormai è introvabile, a causa del blocco delle tecnologie ritenute strategiche dagli Stati Uniti devastati dalla pandemia».

(Continua)

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Elisabetta Burba