Siluro togato contro Giorgio Napolitano
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Siluro togato contro Giorgio Napolitano

Intercettando anche Napolitano, come rivelato da Panorama, Ingroia e Di Matteo hanno abusato del loro potere

UPDATE: Il Presidente del Consiglio Mario Monti ha definito grave il caso delle telefonate del capo dello Stato  intercettate dalla procura di Palermo, affermando che nell'ambito del fenomeno delle intercettazioni telefoniche si sono verificati e si  verificano "abusi che imporrebbero un'iniziativa del governo". L'Associazione nazionale Magistrati ha alzato subito il velo della polemica e ha replicato che al momento è improprio parlare di abusi. Ma ecco, nel nostro articolo pubblicato qualche settimana fa, i motivi per cui ascoltare le conversazioni del Presidente della Repubblica nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia da parte dei Pm di Palermo è stato un abuso di potere.

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Hanno intercettato anche Giorgio Napolitano. La notizia rivelata da Panorama nel numero in edicola questa settimana , ha ora una conferma diretta: quella dello stesso Pm palermitano Nino Di Matteo che, con il collega Antonio Ingroia, ha ordinato di ascoltare le conversazioni del Presidente della Repubblica nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’ammissione del magistrato, per alcuni aspetti molto grave, è in un’intervista a Repubblica di oggi, in cui il pm spiega che «nessuno è al di sopra della legge» e che comunque le intercettazioni di Napolitano, ritenute da loro stessi del tutto irrilevanti ai fini dell’ inchiesta, rassicura che saranno distrutte.

Al Quirinale, come ha ricostruito Panorama, i pm erano arrivati seguendo Nicola Mancino, ministro dell’Interno all’epoca della famosa trattativa, il quale si era rivolto alla Presidenza della Repubblica perché si sentiva ingiustamente preso di mira dai magistrati palermitani.

Napolitano lo aveva indirizzato al suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, il quale a sua volta era intervenuto sulla Cassazione per sollecitare un coordinamento delle inchieste sulla trattativa, al momento condotte da tre diverse procure (Palermo, Caltanisetta e Firenze) non comunicanti se non addirittura in conflitto tra loro. Alla fine, Ingroia e Di Matteo hanno formalizzato l’accusa di falsa testimonianza nei confronti, fra gli altri, di Mancino e di un altro ex ministro, quello della Giustizia, il novantenne Giovanni Conso (iniziativa non condivisa dal capo della procura palermitana Francesco Messineo, da uno dei pm del pool Paolo Guido e da gran parte di Magistratura democratica, la corrente di sinistra).

A quel punto, quasi simultaneamente, ai giornali sono arrivate le intercettazioni delle conversazioni tra Mancino e Loris D’Ambrosio, ed è partito un attacco politico-mediatico contro il Capo dello Stato, accusato da Antonio Di Pietro, Lega e alcuni giornali di aver esercitato indebite pressioni sui pm palermitani. Di Pietro è giunto addirittura a chiedere una comissione d’inchiesta, lasciando intravedere addirittura un’ipotesi di impeachment del Presidente della Repubblica. La campagna si è subito sgonfiata, com’era inevitabile del resto, poggiando sul nulla. Tant’è che sono dovuti intervenire prima Ingroia, in un’intervista dell’altro ieri all’Unità, per smentire qualsiasi forma di indebita pressione da parte del Quirinale.

Ed oggi Di Matteo, per dire che le intercettazioni di Napolitano sono del tutto irrilevanti. Doverosa retromarcia. Che tuttavia non cancella la gravità di quanto è avvenuto. Dal punto di vista costituzionale. E da quello della funzionalità e dell’efficienza della magistratura.

Dal punto di vista costituzionale, intercettando anche Napolitano, Ingroia e Di Matteo hanno abusato del loro potere. Spiega infatti Giovanni Pellegrino, avvocato e giurista: «Non è vero che la legge è uguale per tutti. Non lo è per il Capo dello Stato, il quale per le cose che fa, non da privato cittadino, ma nell’esercizio delle proprie funzioni, può essere oggetto dell’attenzione della magistratura solo in due casi: alto tradimento e attentato alla Costituzione. E certo non siamo in presenza di nessuno di questi due casi».

Non solo. Ma a rendere il tutto ancora più paradossale, è stato lo stesso Ingroia, il quale nella sua intervista all’Unità ha dichiarato che l’oggetto sul quale la procura di Palermo indaga- e cioè la trattativa Stato-mafia- non costituisce di per sé un reato. Ma allora? Il problema, ha aggiunto Ingroia, è riempire una pagina di storia. Una dichiarazione talmente surreale che ha indotto Michele Ainis, uno dei più stimati costituzionalisti italiani, a scrivere sul Corriere della Sera: «Sia detto allora con il massimo rispetto per questo magistrato: lasciamolo agli storici, il lavoro di ricostruzione storica. La magistratura si occupi piuttosto dei reati. E ai cittadini il giudizio sulle responsabilità politiche e morali, quando ci sono».

Sì, sarebbe una buona regola alla quale la magistratura farebbe bene ad attenersi, invece di sollevare inutili polveroni politico-mediatici. Nell’interesse della giustizia per i tanti morti di mafia. E della verità che l’opinione pubblica ora non attende più: la pretende.

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Giovanni Fasanella

Redattore parlamentare dal 1984,  prima dell'Unità e poi, dal 1988, di Panorama. Ha pubblicato molti libri con ex terroristi, vittime di terroristi ed alcuni tra i maggiori investigatori italiani nei loro rispettivi ambiti: Giovanni Pellegrino, per sette anni presidente della commissione parlamentari su stragi e terrorismo; Rosario Priore, giudice istruttore delle inchieste su Moro, Ustica e attentato a papa Giovanni Paolo II; Mario Mori, fondatore del Ros e per alcuni anni direttore del Servizio segreto civile.

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