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Sicurezza: il "Modello Milano"

Il Ministro Lamorgese presenta Milano come eccellenza per sicurezza ed accoglienza. Ma la realtà ed i dati raccontano un'altra verità

«Modello Milano» come nuova politica dell’accoglienza controllata e della sicurezza nazionale: la nomina a Ministro dell’Interno di Luciana Lamorgese, un tecnico gradito alla politica, già prefetto nel capoluogo lombardo negli anni difficili dell’immigrazione incontrollata, dal febbraio 2017 all’ottobre 2018, è stata festeggiata come chiaro segno di discontinuità tra i governi Conte 1 e Conte 2.

Se sarà davvero così, se cioè la politica della sicurezza dei cittadini, della gestione dell’immigrazione e della lotta alla criminalità e al degrado cambierà segno, è presto per dirlo. E mentre i porti restano «chiusi» e le imbarcazioni delle Ong cariche di migranti continuano a rollare sul mare, provocando non pochi mal di pancia alla componente più a sinistra della neonata maggioranza parlamentare, per immaginare il futuro possiamo analizzare il passato e, per giudicare il lavoro svolto da Lamorgese, vale la pena sfogliare le cartoline di una Milano che è stato il banco di prova delle politiche della neo ministra, riassumibili nella definizione «pugno di ferro in guanto di velluto».

Siamo sicuri che Milano sia un modello da proporre e applicare altrove? I fatti dicono altro. Èla città italiana con più denunce per reati:7,4 ogni cento abitanti. I crimini, se pur in calo, restano allarmanti: nell’intera provincia lo scorso anno si sono registrati 150 mila reati, 3.786 rapine, oltre 10 mila persone denunciate e 2 tonnellate di droga sequestrate. E nonostante l’impegno delle forze dell’ordine sul fronte della droga, dell’immigrazione clandestina e della criminalità, la realtà racconta tanti fallimenti.

Milano, 2 maggio 2017. Centinaia di poliziotti cingono la Stazione Centrale. Entrano in azione gli agenti del Reparto mobile in tenuta antisommossa, la polizia a cavallo, unità cinofile e un elicottero che sorvola la zona. L’ingresso alla metropolitana viene sbarrato, decine di stranieri vengono fermati, perquisiti, identificati o portati in questura. Le immagini di quell’operazione senza precedenti rimbalzano su siti e tv. A Palazzo Marino il consiglio comunale viene sospeso. Più che un blitz è una retata quella organizzata dalla questura su richiesta dell’allora prefetto milanese, la Lamorgese appunto. Poco importa se l’indomani il mattinale della polizia riporta che, a fine servizio, non c’è stata nemmeno una denuncia. La prova muscolare è stata un successo di immagine.

E oggi? La Stazione Centrale, l’11 settembre 2019, continua a sembrare un caotico suk. Lucy, corpulenta nigeriana, vende a un euro deliziosi dolci fritti. Il suo banco improvvisato offre di tutto e fa degna concorrenza ai chioschi regolari di bibite, frutta e panini. I clienti non mancano. Ma soffermandosi a osservare la variopinta folla intorno alla stazione, si capisce che la porta di ingresso della città è divisa in zone ben definite, dove le attività illecite sono distinte e regolate da piccoli ras.

Uscendo su piazza Duca d’Aosta, a sinistra ci sono gli africani, monopolisti dello spaccio. All’ombra degli alberelli stenti, palline di cellophane passano di mano a un ritmo vorticoso. Ci sono le vedette che segnalano con un sibilo le persone sospette o i possibili acquirenti, c’è chi nasconde la droga e rifornisce gli spacciatori e chi è pronto ad accerchiare le pattuglie delle forze dell’ordine per dare tempo ai complici di sottrarsi ai controlli. Verso Via Vittor Pisani, i turisti si fanno il selfie con lo sfondo del Pirellone, in mezzo a stranieri dell’Est e alle abluzioni di chi approfitta delle fontanelle per farsi la doccia o lavare i panni. Vicino alla mela gigante dello scultore Pistoletto, tre mezzi blindati dell’Esercito e un furgone della polizia stazionano senza scopo, mentre gli uomini in uniforme chiacchierano all’ombra di un tendone.

Anche sotto la monumentale Galleria delle Carrozze i posti sono spartiti. A destra ci sono i gruppi di ex detenuti italiani, con le dita ricoperte di tatuaggi. Parlano con i tossicodipendenti abbandonati a sé stessi che vanno e vengono dai Sert. Al centro e vicino alle uscite, sotto gli sguardi delle guardie giurate di Grandi stazioni, si muovono lesti i cingalesi che vendono batterie per cellulari di contrabbando e selfie stick a otto euro (ma, trattando, si arriva a tre) o, in caso di pioggia, ombrellini non a norma di produzione cinese. Dalle scale mobili della metropolitana affiorano giovani nomadi che si aggirano intorno ai passeggeri stranieri seduti su giganteschi trolley. Le biglietterie elettroniche sono presidiate dalla vigilanza per contenere l’assalto dei borseggiatori a chi acquista il biglietto. Il sottopasso viene pattugliato dai militari.

In quello della stazione di Lecco, il 10 settembre scorso, un folle originario del Togo ha picchiato a sangue, senza motivo, due donne cha aveva incrociato. In Centrale a Milano, il 18 maggio 2017, furono accoltellati due militari e un agente della Polfer impegnati nel pattugliamento. Il mese precedente erano stati feriti in una rissa un carabiniere e un altro militare comandati di pattuglia nel progetto «Strade sicure». Il lato dove arrivano le corriere invece, su piazza Luigi di Savoia, è pertinenza dei senza tetto e dei questuanti che da anni vivono, dormono e mangiano lì (2.608 i senza fissa dimora a Milano). Sul retro, nel sottopassaggio di via Pergolesi, alcuni immigrati africani spostano i loro giacigli per permettere il passaggio delle spazzatrici della nettezza urbana. 

Oggi i blitz come quello del maggio 2017, a cui ne seguirono altri altrettanto clamorosi, non si fanno più. Perché tanto sono inutili. Eppure proprio quelle operazioni ad alto impatto, e scarso risultato, voluti dal prefetto Lamorgese con il compiacimento dell’allora ministero dell’Interno Marco Minniti, costituiscono uno degli ingredienti deltanto citato «modello Milano» che ora potrebbe essere replicato dal Viminale.

Andiamo avanti. A Rogoredo, il 10 ottobre dell’anno scorso, viene terminata la costruzione di un muro alto quattro metri e lungo 200: costeggia i binari della ferrovia dell’Alta velocità che attraversano il «boschetto» di Rogoredo, una delle zone di spaccio a cielo aperto più vaste e frequentate d’Europa. L’opera, voluta dalla prefettura, costata 700 mila euro e costruita da Rfi, doveva servire per sbarrare la strada ai pusher rendendo più facile il lavoro alle forze dell’ordine, in un’ottica di risanamento di una zona diventata tristemente famosa per le morti di overdose. 

Ha funzionato? Mah. A Rogoredo, lo scorso 17 luglio, il cadavere di un 33enne viene trovato ai margini del boschetto. L’ennesima vittima dell’eroina. Il muro ha solo spostato di pochi metri lo spaccio, gestito dal clan Mansouri, famiglia marocchina con molti precedenti penali che, nonostante gli arresti, continua a comandare. Oggi le forze dell’ordine stimano che ogni giorno circa 700 tossicodipendenti si rechino al boschetto per acquistare droga. Alla procura della Repubblica giace da due anni un fascicolo di indagine di oltre 700 pagine. L’area, oggetto di un piano interforze di recupero, resta ostaggio della malavita.

Non supera l’esame nemmeno l’approccio alla gestione degli immigrati, clandestini o meno, vanto del prefetto Lamorgese che, con il suo «Protocollo migranti», sostenendo la tesi dell’accoglienza calmierata e condivisa, aveva praticamente imposto ai sindaci della provincia di Milano di farsi carico di quote, anche piccole, di immigrati per alleggerire la pressione sul capoluogo. Decine di riunioni portarono a convincere soltanto una quarantina di municipi su oltre 130, con la forte opposizione di quelli espressione della Lega, che criticarono aspramente l’approccio della prefettura, minacciando blocchi stradali in caso di invio di stranieri nei loro territori.

In realtà, a parte le belle parole improntate alla solidarietà utilizzate per convincere i sindaci più riottosi, la pressione su Milano non diminuì affatto. I comuni satellite si accollarono poche decine di stranieri. Le statistiche del governo testimoniano che il flusso di immigrati preme soprattutto sul capoluogo: gli extracomunitari residenti a Milano sono 444.846 e corrispondono all’11,8 per cento del totale dei residenti. Ma si tratta di quelli regolari.

Uno status che resta un miraggio anche per i clandestini intenzionati a mettersi in regola con i documenti e che hanno partecipato ai progetti di integrazione organizzati della prefettura. Nel 2017 Panorama intervistò alcuni dei 400 ospiti del centro di accoglienza straordinaria di via Corelli, periferia di Milano. Scoprendo che i richiedenti asilo aspettavano da un anno e mezzo una risposta di accoglimento o di rigetto proprio dalla prefettura.

Risultato? L’Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità ha calcolato che nel 2018, in Lombardia, vivevano 111.750 stranieri irregolari, in aumento del 8,4 per cento rispetto all’anno precedente. Se il «protocollo Lamorgese» sulla distribuzione dei migranti sul territorio dovesse tornare in auge, il ministro troverà il primo ostacolo proprio nella sua Lombardia. Dove dovrà vedersela con 200 sindaci leghisti. Dante Cattaneo, che ne è il coordinatore, annuncia una resistenza a oltranza: «Ci opporremo in ogni modo. Non ci sarà nessuno tipo di collaborazione perché non vogliamo più considerarci conniventi con il business dell’accoglienza rifinanziato da soldi pubblici né complici di una situazione fuori controllo». 

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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