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La scuola e la riforma che non c'è

Belle idee ma (per ora) nessun testo di legge: il punto di Luca Ricolfi

Bambini a scuolaAlunni della scuola elementare di Bottego di Bologna in un'immagine diffusa dall'UNICEF nell'ambito della Campagna ''IO come TU'' Unicef

Per ora, la riforma della scuola non c’è. Non voglio dire che la legge non è ancora entrata in vigore, o non ha ancora prodotto i suoi effetti. No, il fatto è che non esiste alcun testo di legge. E a maggior ragione non esistono decreti e regolamenti attuativi. Quindi nessun giudizio puntuale è possibile sulla riforma della scuola di Matteo Renzi. Quel che esiste sono invece 136 pagine di idee, riassunte in 12 punti, consultabili sul sito del governo (passodopopasso.italia.it).


E allora parliamo delle idee. Alcune sono giuste quanto ovvie (più inglese), altre sono decisamente sensate (alternanza scuola-lavoro, più potere ai presidi nella scelta degli insegnanti), altre possono apparire più o meno ragionevoli a seconda dei punti di vista. Quel che mi colpisce, però, quando si parla di scuola e di università a livello politico, è la completa rimozione di quello che, a tantissime persone che nella scuola e nell’università lavorano da anni, appare il problema numero 1. Un problema che, se anche andassero in porto tutte le più o meno fantasiose riforme concepite dal ceto politico, resterebbe in piedi. Un problema che pochi vogliono vedere, ma che si vede a occhio nudo.

Questo problema è il crollo del livello effettivo di istruzione dei giovani, che si accompagna alla continua ascesa del loro grado di istruzione formale. Oggi la maggior parte dei ragazzi che arriva in un liceo non ha la preparazione di base che, mezzo secolo fa, forniva la scuola elementare. E la maggior parte dei ragazzi che si iscrive all’università non ha il grado di organizzazione mentale che mezzo secolo fa forniva la licenza media. Tanto è vero che le università sono state costrette a:
1. Inventare «corsi di allineamento» per le matricole, per riparare i danni e riempire le lacune lasciate dalla scuola secondaria.
2. Abbassare gli standard dei corsi e pretendere pochissimo agli esami.
3. Abolire di fatto la tesi di laurea, un tipo di testo che ormai sono in grado di produrre solo i dottori di ricerca (a 28-30 anni, anziché a 23-24).
Insomma il problema del nostro sistema di istruzione è che la sua produttività media è crollata, e che il suo prodotto è terribilmente disomogeneo. Nulla, ma proprio nulla, assicura che il titolare di una laurea o di un diploma abbia le conoscenze che, in teoria, dovrebbe possedere. Di chi è la colpa? A costo di fare una parte che non mi piace, quella del sociologo giustificazionista, vorrei discolpare gli studenti.  Non è colpa loro se preferiscono divertirsi e non hanno la minima voglia di fare gli sforzi e i sacrifici che qualsiasi studio serio comporta, specie all’inizio, ossia prima di regalare le soddisfazioni che derivano dal raggiunto controllo di un campo del sapere. No, la colpa è degli adulti, genitori e insegnanti. Alla maggior parte delle famiglie il livello culturale raggiunto dai loro ragazzi interessa pochissimo, purché qualcuno li gestisca per una parte della giornata, tornino a casa sereni, possano trascorrere lunghi weekend con i genitori, e alla fine il benedetto titolo di studio lo prendano (se no sono pronti a fare ricorso). Quanto agli insegnanti, stretti fra pressioni delle famiglie e direttive dall’alto, spesso hanno finito per rassegnarsi.

Poco male, si potrebbe dire. Se a una società la cultura non interessa, e se così tanti lavori ne richiedono così poca, perché dolersi se tanti giovani non sono in grado di scrivere in italiano, di capire un testo di media complessità, di fare un discorso in pubblico, di risolvere un problema scientifico elmentare? Dopo tutto la maggior parte dei lavori attuali non richiede né una grande cultura, né una grande memoria, né un elevato grado di organizzazione mentale, come quasi vent’anni fa aveva previsto Lucio Russo (Segmenti e bastoncini, Feltrinelli 1998) C’è solo un’obiezione. Non avendo nemmeno provato a insegnare ai nostri giovani l’amore per la cultura, potremmo aver tolto alle loro esistenze qualcosa di bello e forse anche di importante, specie per chi viene dal basso: perché il figlio di papà, il famigerato «Pierino del dottore» di don Milani, se la cava sempre, grazie ai soldi e alle conoscenze dei suoi genitori; mentre il ragazzo di umili origini, cui le famiglie e soprattutto la scuola hanno rinunciato a fornire una cultura, sempre soccomberà di fronte ai mezzi soverchianti di Pierino.
Che paradosso! Una scuola che tanto si è ispirata a don Milani, ha finito per fare gli interessi di classe di Pierino… n © riproduzione riservata


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Luca Ricolfi