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Studenti alla marcia della pace Arezzo-Rondine il 19 marzo 2022 (Ansa).
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La scuola deve insegnare agli studenti a non abituarsi alla guerra

A proposito del conflitto in Ucraina, il compito degli insegnanti è non permettere che si induriscano i cuori dei loro allievi.

Sulla guerra in Ucraina, notiziari, siti e giornali offrono mappe dell’avanzata russa, lenta e inesorabile, e alternano dichiarazioni e scenari possibili, dalle trattative al rischio atomico, accogliendo interviste a specialisti dei vari ambiti. Soprattutto raccontano storie e mostrano città sventrate, scenari simili a molte altre guerre, perché le guerre si somigliano tutte per quel che generano: sfollamenti, povertà, sofferenza, cicatrici. Morte. Cambiano gli scenari, il vestiario delle persone in fuga, il clima e l’architettura dei luoghi martoriati, ma gli occhi di chi sta sotto le bombe sono gli stessi, così come lo sono le macerie, i cani randagi, i giochi dei bambini a terra, le scuole vuote.

«Sangue su sangue precipita senza rumore». Così cantava Francesco De Gregori nel 1992, prendendo spunto dal bombardamento su Baghdad dell’anno precedente, il primo vissuto dalle nostre case in diretta televisiva, nella prima guerra telegenica della storia. L’apprensione, 30 anni fa come oggi, per un conflitto che potesse rischiare di estendersi e diventare mondiale teneva tutti in ansia. E così era quotidiano lo stupore inerte, identico ora come allora, per la sofferenza causata dalle bombe e dall’artiglieria di ogni tipo, ma anche l’esperienza di immagini dal fronte e poi di racconti tremendi che cambiavano la percezione del presente che si faceva storia da manuale scolastico. E piano piano, invece, l’abitudine a queste scene, a questo strazio, così uguale giorno dopo giorno.

Tra Baghdad e Kiev c’è stato tanto altro «sangue su sangue», dalla ex-Jugoslavia al ritorno in Iraq, dalla Siria alla Crimea, fino all’Afghanistan e alla Libia, dai campi di concentramento ai barconi dei disperati. Finestre di dolore che si affacciano nelle nostre vite sulle pagine dei giornali in salotto, prendendo il tè o cedendo al sonno, oppure attraverso la rassegna stampa ascoltata in auto, in doccia o in cuffia facendo jogging, con l’aiuto del proprio podcast di riferimento.

Il mondo adulto ha fretta, corre, e così fa correre il rischio a un’intera generazione di ragazzi di non capire come sia possibile che la violenta denuncia dell’orrore lasci il posto, senza colpo ferire, a un’esposizione inevitabilmente accettata da chi, comunque, ogni mattina deve andare avanti, tra lavoro, spesa, problemi, famiglia.

«Sangue su sangue non macchia va subito via» canta De Gregori, alludendo proprio al rischio di abituarsi all’orrore, di qualunque disastro si tratti. Un altro assassinio, un altro femminicidio, un altro bombardamento. Tutto diventa norma con l’eccessiva esposizione a scene come quelle che vengono dall’Ucraina, che sono vita vera, ma che entrano nella nostra quotidianità come fossero film, come fossero fiction. Realtà e finzione si somigliano, si fondono, tutto diventa cronaca e niente approfondimento.

C’è una generazione di studenti che vive quotidianamente il dramma del confronto tra il reale e il virtuale. È quella generazione che ha sperimentato la scuola a distanza, lo sport a distanza, l’amicizia a distanza, l’amore a distanza. Ed è la generazione che ora va preservata dall’ipocrisia e dall’indurimento del cuore. In questo la scuola può fare molto, perché i tempi della scuola possono essere assai diversi rispetto a quelli di tutto ciò che le sta intorno, e nonostante questo sia considerato sempre un elemento di noia e di inattualità da estirpare, in giorni come questi viene a essere un elemento prezioso per sottrarre i ragazzi all’appiattimento, al conformismo, alla massima per cui comunque lo spettacolo deve proseguire.

Non significa chiudere i libri domani mattina e fare dibattito da qui a fine anno, ma ad esempio potrebbe essere utile riorganizzare il tempo da garantire all’educazione civica dando spazio all’esigenza di scandalizzarsi dinanzi all’ingiustizia, alla frode, alla mala condotta. Alla guerra.

Scandalo è un vocabolo di derivazione greca e significa «inciampo, ostacolo». E così «pietra dello scandalo» era quel sasso irregolare che spezzava le caviglie dei cavalli o le ruote dei carri e delle carovane. Era un ostacolo e potenzialmente un disastro. Se si incappava nella pietra d’inciampo, niente era più come prima. Impossibile abituarsi. Sembravano tutte uguali, ma erano tutte diverse. Scandalizzarsi quindi significa accorgersi che c’è un ostacolo e non potere fare altrimenti, perché l’ostacolo c’è, spiazza, impedisce la ritualità del quotidiano.

Ecco, la scuola può aiutare a rimanere scandalizzati per non abituarsi alla guerra. Ci siano i compiti in classe, le valutazioni, i programmi che avanzano, le gite se ce ne sarà il modo, ma ci sia anche la guerra, il suo racconto, il tempo per la comprensione di ciò che accade e di ciò che cambia.

La scuola si senta nella posizione di non permettere che si induriscano i cuori dei suoi studenti, cercando di mediare lo svolgimento dell’attività didattica quotidiana a una trattazione emotiva, dettagliata, documentata e critica del conflitto, senza che finisca mai nel dimenticatoio, senza che la prossimità si viva sempre meno. Senza dovere aspettare nuove tappe di un’escalation che nessuno si augura. Proprio per evitare che la prossima generazione di donne e uomini compia gli errori di sempre, la scuola si impegni affinchè questo «sangue su sangue» faccia inciampare e faccia dire «mai più».

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Marcello Bramati