Prevenire i terremoti?
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Prevenire i terremoti?

Ecco che cosa insegnano le polemiche sul sisma all'Aquila

Il terremoto dell’Emilia Romagna ha inevitabilmente amplificato le discussioni sulla prevenzione, la sicurezza e il tipo di informazione adeguata da fornire ai cittadini. Tema ancora più spinoso dopo che l’8 giugno il governo ha diffuso il documento nel quale la Commissione grandi rischi si esprime come mai era stato fatto in Italia: «Nel caso di una ripresa dell’attività sismica nell’area già interessata dalla sequenza in corso, è significativa la probabilità che si attivi il segmento compreso tra Finale Emilia e Ferrara con eventi paragonabili ai maggiori eventi registrati nella sequenza». Un’autodifesa? Un mettere le mani avanti per paura di conseguenze giudiziarie? A parere di chi scrive, un corretto modo di avvertire le autorità, locali e nazionali, a organizzarsi nel modo migliore per limitare i danni alla popolazione.

Accade però che un autorevole giornalista come Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera dell’11 giugno, cominci la sua rubrica nel modo seguente: «Se qualcuno viene inquisito all’Aquila per non aver previsto il terremoto, è naturale che l’applicazione letterale del principio di precauzione imponga alle commissioni di studio di affermare che, certo, non possono escludersi le più squassanti catastrofi nelle zone dell’Emilia già così crudelmente colpite dal sisma».

Le cose non stanno così e chi si occupa del terremoto dell’Aquila dovrebbe approfondire un tema molto delicato, vista l’enorme quantità di materiale a disposizione. Davanti ai giudici aquilani i sette membri dell’allora Commissione grandi rischi non sono sotto processo per non aver previsto il terremoto, bensì, con sintesi giornalistica, per aver previsto che non ci sarebbe stato. Le accuse di omicidio colposo plurimo e lesioni gravi derivano da una «valutazione del rischio sismico approssimativa, generica e inefficace in relazione all’attività della commissione», come scrisse il gup Giuseppe Romano Gargarella che li rinviò a giudizio nel maggio 2011. La procura aveva aperto un’inchiesta dopo un esposto dell’avvocato Antonio Valentini sull’esito della riunione della Commissione organizzata a L’Aquila il 31 marzo, all’indomani di una scossa di 4.1 Richter. Per inciso, dalle 13.30 a mezzanotte di quel 30 marzo le scosse furono 40, com’è facile controllare sul sito dell’Ingv, tanto che il sindaco, Massimo Cialente, ordinò la chiusura delle scuole.

La riunione della Commissione fu convocata tenendo anche conto che lo sciame durava dalla metà di dicembre 2008 e che la popolazione era molto preoccupata. Al termine, scrisse ancora il gup, furono fornite «informazioni imprecise, incomplete e contraddittorie sulla pericolosità dell’attività sismica vanificando in tal modo le attività di tutela della popolazione». In sostanza, vennero diffuse notizie rassicuranti che, nella notte tra il 5 e il 6 aprile 2009, hanno convinto la popolazione a restare in casa. Uno dei messaggi diffusi in dichiarazioni e interviste fu: «più scosse fa, meglio è perché si scarica energia».

Che «prevenire il sisma sia meglio che prevederlo», come recita il titolo della rubrica di Battista, è fuor di dubbio e che in Italia (e a L’Aquila) non sia stato fatto quasi niente in questa direzione è purtroppo sotto gli occhi di tutti. Le responsabilità nei decenni dei governi, delle amministrazioni locali e degli imprenditori edili sono evidenti. Dagli scienziati, però, ci si aspetta che tengano conto dei loro studi. Sul numero 7 di Panorama del febbraio scorso, pubblicammo un articolo sui tanti allarmi ignorati in Italia. Dopo le forti scosse in Emilia in gennaio, fu l’occasione per ricordare quanto scrissero nell’ottobre 1995 Enzo Boschi, Paolo Gasperini e Francesco Mulargia sul bollettino della Società sismologia americana: in Italia «l’immediata probabilità di un evento sismico di magnitudo maggiore o uguale a 5.9 è stimata molto bassa in tutte le regioni tranne la Sicilia sud-orientale e l’Appennino abruzzese. Nell’immediato futuro (circa 20 anni) la probabilità stimata è alta (oltre il 65 per cento) anche nell’Appennino forlivese e nella regione di Naso-Capo d’Orlando», cioè la costa siciliana di fronte alle Eolie. Entro il 2015, dunque, c’era un’alta probabilità di forti terremoti in quattro aree. L’Aquila era una di queste e infatti lo studio è agli atti del processo a carico della Commissione grandi rischi. Un semplice cittadino potrebbe domandarsi: se a L’Aquila c’era uno sciame in atto da mesi, se il periodo indicato nel 1995 era giusto, se L’Aquila era una di quelle zone a rischio, perché non si è pensato che forse, mille volte forse, poteva verificarsi un terremoto e si è invece deciso di tranquillizzare?

Non si trattava di prevedere, ma magari di lasciare alle autorità locali la decisione sul da farsi. Tutti dovrebbero stamparsi in mente la frase pronunciata dall’avvocato Maurizio Cora, che nel sisma del 6 aprile perse la moglie e le due figlie nel crollo del palazzo di via XX Settembre, di fronte all’ormai famosa Casa dello studente: «Bastava che dicessero “non sappiamo che succede”, e io non avrei tenuto la mia famiglia a casa».

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Stefano Vespa