Preside a 16 anni: “La scuola non mi bastava e me ne sono inventata un'altra"
Foto di Roberto Caccuri.
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Preside a 16 anni: “La scuola non mi bastava e me ne sono inventata un'altra"

Si chiama Valeria Cagnina, vive ad Alessandria e insegna robotica nella scuola che le hanno costruito mamma e papà

«A Boston, al Mit, mi aprirono i laboratori, ad Alessandria, a scuola, mi volevano rimandare». Insomma, ti volevano bocciare. «Si, ma non potevano farlo perché avevo la media del nove». E allora? «I professori mi fecero sapere, tramite Facebook, e attraverso i miei compagni di classe, che rischiavo di essere n.c». Che significa? «Non classificata. Mi venivano contestate le assenze. Ed era vero. Da un mese non andavo a scuola, ma era altrettanto vero che mi trovavo appunto in America, al Mit. Si tratta dell’università più prestigiosa del mondo. Non è soltanto un luogo fisico ma l’idea stessa della ricerca, della tecnologia. In pratica l’Olimpo della scienza».

Per scuola, Valeria Cagnina, intende quella media. «La prima volta che sono entrata al Mit avevo 11 anni. Frequentavo la prima media». Oggi quanti ne hai? «16. Sono iscritta al quarto anno di un istituto informatico. Ma come vedi, adesso, una scuola me lo sono inventata io. Insegno robotica applicata nel campo dell’educazione. Mia è la disposizione degli arredamenti, i colori delle pareti. Io l’ho interamente immaginata e i miei genitori aiutato a costruirla». Chi segue le tue lezioni? «Oltre venti studenti. La più piccina ha quattro anni. Due volte a settimana insegno inoltre in un asilo di Asti e in una scuola elementare di Valenza. Ma a seguirmi ci sono anche cinque insegnanti che credono di potere imparare qualcosa da me».

A San Michele, in una frazione di Alessandria, con il fotografo Roberto ci togliamo infatti le scarpe e anche noi, come i piccoli Noemi, Sara, Roberto, Daniele, Alessandro, entriamo in questa singolare scuola dove l’insegnante, Valeria, ha 16 anni e dove gli unici doveri sono rotolarsi tra morbidi cuscini, gattonare lungo coloratissimi tappetti, guardare filmati su You Tube, perfino copiare perché, come spiega Valeria, «sbagliando si impara ma se fai copia e incolla è meglio». Hai imparato così? «Ho anche imparato così. Che male c’è? L’errore è credere che dal web possa venirci solo del male. Fateci caso. L’educazione digitale di un bambino consiste solo nei divieti. Ed è certo giusto ma anche un po’ sbagliato. Tutti stabiliscono cosa non si deve vedere, ma nessuno ci accompagna tra le cose che potremmo vedere».

Ci consegniamo anche noi dunque a Valeria e decidiamo di sederci in questa stanza dove estromesso è il cattivo umore insieme alle sedie e ai banchi che qui vengono considerati inutili ostacoli così come predicava l’abusata, ma poco ascoltata, educatrice Maria Montessori e l’artista Bruno Munari dell’opinione che “nessuno può entrare nel mondo di un bambino se non è disposto a sedersi per terra”.

Qui la fantasia è più accelerata d’altrove e non solo perché la mascotte della scuola si chiama “Turbo”, uno scombiccherato robot di pezza, dal colore blu e con le gambe storte che ha conquistato Valeria, («Quando lo ricevetti rimasi delusa proprio per le sue gambe, poi ho pensato che fosse la migliore prova che anche nelle piccole cose bisogna essere precisi. Pure le gambe di un pupazzo dovrebbero essere simmetriche»). Anche le pareti, dove si aggirano razzi e si affacciano stelle, ricordano che qui «Niente è impossibile e che tutto si può costruire» e che il pensiero vietatissimo e mai da pronunciare è «Io non ce la faccio».

L’aula è stata ricavata a casa di Valeria dal papà Roberto che è un piccolo imprenditore di impianti frigo, («Può tranquillamente scrivere che la mia conoscenza della tecnologia si limita a quello»), una passione per i viaggi e i paesi lontani che condivide con la sorridente e spiritosa moglie Liliana, («Ci siamo conosciuti a scuola. Abbiamo resistito alla prova più difficile. Lavorare insieme»), un’altra che l’informatica l’ha sempre utilizzata per lavoro, («Anzi, le dico di più. Solo da pochi anni abbiamo il wi-fi. Farlo arrivare sino a qui, e parliamo di pochi chilometri dal centro di Alessandria, è stata una conquista storica. Ogni temporale è una minaccia d’isolamento»). E però, a undici anni Valeria, da casa e con una bassa connessione, è riuscita ad assemblare il suo primo robot con hardware Arduino, una scheda elettronica inventata a Ivrea dalla Olivetti, piccola quanto una carta di credito, una specie di mattoncino Lego per tutti gli ingegneri informatici. «L’ho costruito seguendo i video tutorial in inglese. Lingua che, premetto, non conoscevo». Come hai fatto? «Sottotitoli, immagini e in parte mi servivo di traduttori. Ci ho impiegato dieci giorni. I primi giorni sbagliavo, dopo quattro ho cominciato a capire. Se vuoi te lo mostro, ma devi attendere. Dammi alcuni minuti. Prima devo assegnare i lavori a bambini».

E infatti Valeria torna professoressa e distribuisce i compiti a Sara (4 anni) e Noemi (5 anni) che dovranno colorare, su un foglio, una griglia di cerchi. Valeria ci spiega che ogni cerchio corrisponde a una lettera che successivamente Roberto e Daniele inseriranno all’interno di un simulatore fino a formarne una frase che promette Valeria «potremmo spedire nello Spazio».

Per la prima volta sia io che il fotografo ci sentiamo spaesati mentre guardiamo Daniele e Roberto, 9 e 10 anni, ragionare di “binario”, “html”, che Valeria ci spiega essere codici informatici, comandi insomma, che permettono alle macchine di agire, muoversi, ruotare su sé stessi, illuminarsi, comunicare informazioni. «Per gli informatici, il codice è come la tavola periodica per i chimici, la tastiera per gli scrittori. Non spaventarti. Forse un giorno, il codice potrebbe addirittura sostituire l’inglese». Spaventati lo siamo un po’ e ringraziamo la madre Liliana che comprendendo il nostro smarrimento ci rassicura: «Non preoccupatevi, non si sa per quanto tempo, ma i normali siamo ancora noi che non ci capiamo nulla».

Nel 2015, Riccardo Luna che dal governo è stato nominato “Digital champion”, carica istituita dalla Ue con lo scopo di far avanzare i paesi per quanto riguarda il digitale, ha a sua volta individuato altri cento ambasciatori digitali e tra questi ha selezionato proprio Valeria. Dei cento è stata la più giovane a farne parte. «Mi è stato affidato il compito di rendere più digitale il comune di Alessandria».

A Valeria chiedo se non sia un rischio essere definiti “genietti”. «Guarda che io ho una vita normale. Parrocchia, ginnastica artistica due volte a settimana. Mi capita pure di spegnere il pc e di dimenticare il telefono sul tavolo per ore. Modernità non è, come molti credono, star sempre connessi ma sapere cosa cercare quando si è connessi. Se lo vuoi sapere, non mi sento una “nerd”». Non ti piace la parola? «Preferisco più la parola “dreamers”. Se noti, ogni studente della mia scuola ha una t-shirt con “dreamers” inciso dietro».

Girandoci verso Daniele e Roberto, che si stanno confrontando su come sia meglio procedere, ci accorgiamo delle maglie di colore verde e del soffitto che simula un cielo azzurro attraversato da alcune bianchissime nuvole. La sensazione è quella di non essere chiusi in una stanza ma di essere sdraiati su un prato con aria buona: informatica sì, ma da campeggio. «E guarda che il campeggio davvero lo abbiamo fatto. Questa estate ho organizzato una Summer school. Per quindici giorni venti bambini hanno giocato, studiato informatica, dormito in una tenda proprio qui fuori».

Lo conferma anche Liliana che per “normalizzare” questa scuola speciale si è dovuta affidare ai commercialisti. «In pratica ho dovuto assumere Valeria nella mia impresa e aprire un codice iva. Sono costretta a doverla accompagnare ogni qual volta tiene lezione nelle scuole. Per legge deve esserci un maggiorenne». Entrambi ci guardiamo e siamo del parere che a mantenere l’ordine in classe sia più brava Valeria rispetto a noi che di anni ne abbiamo più del doppio. In America si sono stupiti e non certo dall’età di Valeria ma dal fatto che quell’età non potessero pagarla. «Al Mit non sapevano come pagarmi». Volevano pagarti? «Si, ho fatto parte di un piccolo progetto. Alla fine hanno accreditato quel denaro a mia madre». A Boston come ci sei arrivata? «Inizialmente in viaggio con i miei genitori. Mentre loro erano in giro per la città, ho preso il mio passaporto (nel caso mi perdessi) e mi sono presentata al Mit. Mi hanno ascoltato, poi un professore mi ha messo alla prova. Mi ha consegnato un kit per costruire un robot Duckietown, una piccola macchina in grado di evitare gli ostacoli. Mi ha detto chiaramente: “Vediamo che sai fare. Poi ci risentiamo“. Tornata in Italia mi sono messa a lavoro. Le prime fasi sono stati facili. Poi, come è naturale, ho avuto difficoltà. Non mi sono data per vinta. Mi sono messa a “stalkerare”».

Inondavi le caselle mail dei professori? «Esatto. Di chiunque mi potesse essere d’aiuto. La tenacia paga sempre tanto che da Boston mi rispondevano. Comunicavo su una piattaforma chiamata “Slack”. L’anno seguente, in estate, mi hanno convocato e offerto di trascorrere tre mesi all’università. Ho collaborato con una start up». Come si chiama? «”My Blend”. Serviva a organizzare proprio il traffico mail. E però, devi nuovamente scusarmi ma devo tornare dai bambini…».

A reclamare Valeria ci pensa la piccola Noemi che è attratta dallo spazio ma anche un po’ preoccupata dall’assenza di gravità perché, come riflette, «Uffa, volare sempre. Alla fine fa un po’ schifo». Noemi vuole fare pure una domanda: «Cosa sono gli AstroPi?». Insieme a Liliana, e agli altri genitori, ridiamo e siamo sollevati che a rispondere sia ancora Valeria e che ancora ci siano, nella sua scatola magica, oggetti strabilianti e sconosciuti. Valeria tira infatti fuori niente poco di meno che una penna 3d che, a dire il vero, sorprende più noi adulti che la piccola Sara che ormai ha imparato a usarla tanto da sapere già «fare i serpenti». Cosa sono? Valeria dice che per “serpenti” si intendono piccole saldature perché con la penna 3d è possibile incollare la plastica, costruire piccoli miniature, oggetti. È come utilizzare ago e filo ma con strumenti diversi. Valeria la chiama robotica educativa e il nome, confesso, non ci dice nulla nonostante di robotica ormai si conoscano le sue applicazioni in campo sanitario. «È naturale non vi dica nulla. In Italia non è una disciplina, né c’è una facoltà che la insegni. Bisogna andare in Svizzera, in Germania. Quando parliamo di robotica educativa non si fa altro che applicare le possibilità della robotica per rendere più giocoso l’insegnamento. In poche parole è possibile spiegare i miti servendosi dei robot. Non solo i miti. Anche i “Promessi Sposi” e la “Divina Commedia”».

Vuoi fare di Dante un cacciatore di replicanti come l’agente Deckard e di Beatrice una segretaria come la Rachael di Blade Runner? «Non solo ti dico che è possibile ma sono pronta a dimostrarlo. Ci possiamo inventare la Divina Commedia animata con dei piccoli robot. Il segreto è sempre quello: insegni solo se diverti». Ma lo smartphone in classe, però, lo spegniamo. Giusto? «Sapevo che me lo avresti chiesto. Io ho pure scritto un articolo. Oltra alla scuola, ho sia un blog di viaggio che una piccola rubrica sul “Piccolo” di Alessandria, il giornale di città». Ti sei schierata? «Ho scritto solamente che il problema non riguarda gli studenti ma gli adulti. Sono loro che si precipitano a controllare le notifiche e non i giovani che, invece, li lasciano accumulare. Io non so dove ho lasciato il mio telefono mentre tu lo stai già cercando e sei in ansia di sapere chi ti abbia scritto. Provate a fare un esperimento>». Quale? «Osservate come si comportano, durante una riunione, genitori e insegnanti. Scoprireste che sono loro più compulsivi dei figli. Riguardo alla lezione, è compito di un insegnante renderla più interessante di una nuova diretta Instagram».

Alle parole di Valeria, ci guardiamo leggermente smascherati nei tic che per comodità attribuiamo agli adolescenti ma che in realtà riguardano più gli adulti. Rimpiccioliti sempre più nella parte degli studenti ci viene in soccorso Daniele che ci parla della sua ultima creazione, una vera e propria mano meccanica che non solo ci mostra ma perfino ci illustra condividendo con noi le asperità della fase creativa così come le soluzioni: «Piccoli tubi elettrici per simulare le falangi mentre della lenza da pesca per costruire i tendini». Con questo modellino, Daniele, ha da poco partecipato al Coolest Project di Milano e vinto un viaggio a Dublino per il prossimo maggio. Ne parla ancora emozionato ma già studia l’upgrade: «Occorre renderlo più dinamico e si possono sostituire i tubi con salsicciotti di carta».

Di fatto è il primo successo di una scuola al di fuori della scuola. La madre di Valeria avvisa, però, che l’errore più grande sarebbe quello di raccontare partendo solo dalle buone notizie: «Credetemi. L’elenco delle perplessità, degli impedimenti è sempre più lungo dei premi. Per spiegare alla scuola italiana che il Mit di Boston fosse un’eccellenza della ricerca mi sono dovuta fare ricevere dal provveditore. Poi ci sono i parenti che ancora si chiedono perché Valeria abbia proprio scelto la robotica. Anche con la connessione veloce, la provincia rimane provincia. Gli stereotipi resistono a qualsiasi hacker».

Questa scuola può diventare la “Nuova Scuola”? Valeria risponde di sì e dice che vorrebbe reclutare altri insegnanti che possano aiutarla: «La richiesta c’è. Ed è un lavoro ben pagato. Finora non ho trovato nessuno». Vuoi uscire dalla provincia? «Al contrario. Sogno una scuola che faccia appunto evadere dalla provincia». Una scuola “turbo”? «Guarda che anche io scrivo come te ancora con la penna e sulla carta». Però sei più veloce di me. «Puoi sempre imparare. Ho dimenticato di dirtelo ma, se vuoi, faccio lezione anche su Skype». Non sono sicuro di riuscire a connettermi. «Eh no. Inizi male. Non ricordi? Qui è vietato dire ….» … “Non ce la faccio!” «Vedi, adesso sì che possiamo cominciare».

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Carmelo Caruso