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ANSA/GIORGIO BENVENUTI
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Soli, in prima linea

Uomini della forze dell'Ordine pestati, feriti, a volte uccisi, mentre lavorano. Ecco i dati di questa battaglia quotidiana tra frustrazioni e sacrifici

Le vacanze di Natale non sono ancora finite, i bambini aspettano gli ultimi regali della Befana. Siamo sul pianerottolo al secondo piano di via Lorenzo il Magnifico 107, palazzo moderno in zona piazza Bologna, Roma. È il 6 gennaio 1982 appena dopo pranzo, verso le 15, Epifania insanguinata negli anni di piombo. Suona il campanello a casa di Nicola Simone, vice capo della Digos, «sbirro» nel midollo. Lui è in cucina. Ha quasi finito di mangiare il filetto. Ma chi è? Ha quasi un sussulto. Estrae la sua calibro 38, si avvicina alla porta, guarda dallo spioncino. «Telegramma, dottore, telegramma!».

In quegli anni email e messaggi WhatsApp ancora non esistono, si usano lettere, cartoline e se c’è qualcosa di rapido da comunicare, ecco che il telegramma arriva in un attimo. E ne sventola proprio uno, l’uomo con indosso l’impeccabile divisa da postino, che Simone vede in attesa sul pianerottolo. Il poliziotto apre, ripone l’arma sul tavolino per firmare la ricevuta quando un altro individuo alle spalle del finto portalettere ne approfitta per scaricargli tre proiettili, tutti in piena faccia. Simone crolla per terra ma sopravvive a quell’attentato. Altri, invece, muoiono ancora oggi.

Intendiamoci, cambiano modalità, movente ma forse è proprio questo il fatto più inquietante. Ieri l’agente di polizia, il carabiniere veniva scovato e cacciato fino a casa sua, con bombe alle caserme, agguati negli androni, gambizzazioni ed esecuzioni esemplari. Il tutto sì in nome di un’ideologia, di una sbandierata resa di conti tra classi sociali, ordine e disordine, in nome di quel popolo in realtà poi nemmeno interpellato. Oggi, invece, l’uomo in divisa diventa bersaglio in sé, avanguardia di uno Stato odiato, rappresentante di un ordine sociale antitetico all’individualismo scolpito dall’intolleranza che fa reagire contro tutto e tutti.

«Trent’anni fa era una guerra civile» spiega Paolo Crepet «che per taluni dava persino “dignità” alle due parti, adesso c’è una guerra civile senza dignità. Da una parte c’è uno Stato che non viene percepito come tale, dall’altra c’è una aggressione priva di ideologia, non ha una motivazione, è solo rabbia. Un tempo c’era rabbia e però ci si illudeva che da qualche parte ci fosse un mondo migliore. Adesso c’è la rabbia senza più l’illusione. È muta e impotente, capace di detonare con atti di violenza fini a se stessi».

Così le cronache di agenti insultati, picchiati, accoltellati, bersagliati da spari, entrano sempre più dentro la centrifuga della violenza quotidiana. Recentissima, una decina di giorni fa, l’aggressione al carabiniere Antonio D’Anna preso a bottigliate in testa dagli ultrà laziali, mentre cercava di difendere un tifoso tedesco dell’Eintracht, in una via di Trastevere.

È comunque un triste bollettino che accomuna mezza Europa. In Francia, per esempio, aumentano i suicidi tra le forze dell’ordine, mentre in Italia le statistiche di morti e feriti in divisa sono sempre più sconfortanti. Basta incrociare i dati che Viminale e ministero della Difesa elaborano su polizia e carabinieri. Ed è quello che ha fatto Panorama, consultando le tabelle ufficiali mai pubblicate prima e che trovate in queste pagine. In Italia, ogni giorno dell’anno, Natale, Pasqua e Ferragosto compresi, ogni due ore e mezza un militare dell’Arma o un poliziotto finiscono in ospedale dopo uno scontro durante un servizio. A partire da quelli di ordine pubblico, manifestazioni e partite di calcio le voci, che registrano il maggior numero di episodi violenti.

I dati sui deceduti, invece, variano in un’altalena di dolore da un anno all’altro. Quelli dei carabinieri, per esempio, sono sorprendenti: nel 2017 non c’è stato nessun morto mentre nel 2018, fino al 17 dicembre scorso, le vittime sono state sette. Ma il dilagare si registra tra i feriti. Solo nei carabinieri a metà dicembre erano 1.517: «Viviamo un contesto di complessità» cerca una spiegazione il colonnello Giuseppe De Riggi, capo del II reparto «Impiego delle forze» al comando generale. «Da sempre ci confrontiamo con la durezza della criminalità. Oggi dobbiamo fronteggiare una aggressività gratuita, che dilaga in tutti gli ambienti anche attraverso l’uso distorto del web. I social sono anche un terreno infido di violenza verbale, che può preludere ad atteggiamenti estremisti. Il carabiniere si misura con tutto ciò, per affrontare le diverse situazioni con determinazione e professionalità».

De Riggi ha ancora scolpite nella mente le immagini del brigadiere Emanuele Reali: «Solo nel 2018 sono sette i carabinieri deceduti in servizio» afferma. «Come Reali, appunto, morto a Caserta lo scorso 6 novembre durante l’inseguimento di un ladro. Aveva moglie e due figlie piccole, amici, interessi. Non era uno sprovveduto né un incosciente. Ha semplicemente deciso che il suo dovere andava compiuto fino in fondo».

Perché questa violenza? Il comandante generale Giovanni Nistri di recente è stato netto davanti alle commissioni parlamentari. L’impegno dei carabinieri, ha detto è «intensissimo. Si stringe a un elevato rischio, sempre più immanente e imprevedibile, in ragione di condotte criminali caratterizzate da violenza, frequentemente gratuita e sproporzionata: [...] negli ultimi cinque anni 9.576 militari sono stati feriti». Con dei costi sociali impressionanti.

Infatti, se prendiamo il 2018 e approfondiamo gli effetti di quei 1.517 carabinieri feriti, non possiamo trascurarne il costo per lo Stato e la comunità. Significa, per esempio, che questi militari, secondo i calcoli all’Arma, per curarsi sono stati costretti a restare a casa complessivamente 11.911 giorni. Tradotto in denaro, significa 1.739.006 euro di danno dovuti a giornate di servizio/uomo perdute. Questo è il costo sociale. Ma l’impatto economico va quantomeno raddoppiato se si considerano tutte le voci.

A partire dalle spese mediche sostenute e quelle per il recupero psicologico dei militari, che per tornare in servizio devono ritrovare piena serenità. «I costi psicologici sono assai rilevanti» affermano al comando generale. «In molti casi essi hanno anche un risvolto economico spesso impossibile da quantificare esattamente, visti i traumi che i carabinieri riportano e con cui dovranno convivere per il resto della vita».

Altra voce da aggiungere sono i costi di giustizia per perseguire gli aggressori. E qui si aprono ulteriori falle giudiziarie perché, tra quelli che mandano gli agenti in ospedale, pochi si fanno il carcere vero e proprio. Tra attenuanti varie, il fermo di polizia spesso non viene convalidato e l’aggressore torna libero per raccontare sfrontato agli amici quanto accaduto. «Dobbiamo essere sicuri» ha denunciato infatti il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ai microfoni di Radio24 «che queste persone non siano arrestate e poi rilasciate in poco tempo, ma vengano perseguite. Ogni volta che viene attaccato un poliziotto o un carabiniere viene attaccato lo Stato. Noi dobbiamo dare dei segnali precisi. Dobbiamo difendere i nostri uomini, è necessaria la certezza dell’intervento nei confronti di coloro che si sono macchiati di queste colpe. Non sempre è stato fatto».

E la frustrazione di chi è preposto alla sicurezza della collettività aumenta. Sottolinea ancora Paolo Crepet: «L’agente si sente più solo: oltre a dover affrontare un aggressore che esprime rabbia cieca, diventa in un certo senso vittima, poiché in cuor suo sa che non c’è un’opinione pubblica completamente dalla sua parte. E oggi, non essendoci motivazioni particolari nelle azioni di chi usa violenza, tutti possono diventare potenziali aggressori. Un tempo non era così: i confini sociali erano definiti. Negli anni di piombo c’erano i fiancheggiatori, ma c’era una solidarietà diffusa verso chi difendeva la collettività».

Allora, vale davvero la pena fare il proprio lavoro nelle forze dell’ordine? Qui il discorso si fa ancora più delicato perché senza seguire i cronici, spesso giustificati, «de profundis» di sindacati e associazioni riguardo a paghe basse, organici ridotti, mezzi scarsi, c’è da interrogarsi su quanto la divisa rappresenti un punto di riferimento nel Paese. A iniziare da chi le leggi le scrive. Perché se è il legislatore a legittimare il malcostume, lo spazio per invertire le tendenze negative si riduce drammaticamente. Basti ricordare alcune scelte che ormai offrono una giurisprudenza consolidata. Se si scende dall’auto e si inizia a insultare gli agenti di una «volante» che magari ha fermato per un controllo, non si compie alcun reato e si possono inanellare i peggiori epiteti, tranquilli dell’impunità.

«Pezzi di merda... Polizia di merda...Ve la faccio pagare, non capite un cazzo». È la frase in base a cui la Cassazione sdoganò l’ingiuria nel 2016, dovendo prendere atto che questo reato era stato depenalizzato dal Parlamento, e tutto poteva risolversi con una fastidiosa ma sopportabilissima multa pecuniaria. Insomma, l’imputato in questione se la cavò con una stretta di mano e un prelievo al bancomat. All’epoca si disse che la scelta era stata fatta per alleggerire il pesante fardello della giustizia: vennero «cassati» 41 reati. Ma se oggi si mette piede in un qualsiasi tribunale, si scopre che non si è certo trasformato in un’isola di efficienza.

Ecco allora che diventa davvero difficile spiegare queste scelte legislative, soprattutto a chi rischia la vita ogni giorno. E finisce in ospedale per storie che magari nemmeno oltrepassano il perimetro dei giornali locali. Ne sa qualcosa il carabiniere scelto Salvatore Casaburi, entrato nell’arma nel 2010 a 19 anni.

Lo scorso 29 giugno era in servizio di ordine pubblico a Bentivoglio, in provincia di Bologna, quando la situazione è degenerata. «Eravamo impegnati all’Interporto di Bologna» racconta «dove nei giorni precedenti c’erano state delle agitazioni sindacali. Il mio reparto era presente con un contingente e il contatto con i manifestanti è avvenuto dopo un sit-in spontaneo non autorizzato che, di fatto, bloccava l’accesso e l’uscita a tutti i mezzi pesanti in transito per l’Interporto». Sono bastati pochi momenti perché dalle parole si sia passati ai fatti: «Nelle fasi più concitate del contatto con i manifestanti ho notato che uno di loro aveva in mano un taglierino. Immediatamente, ho avvisato quelli della mia squadra. E mentre i colleghi facevano un cordone di sicurezza intorno ai più scatenati, insieme a un collega ho provveduto a bloccarlo...». Casaburi è finito al pronto soccorso per «trauma al ramo mandibolare destro e polso destro».

Non si è trattato di una manifestazione operaia ma di uno scontro con gli antagonisti antifascisti, quello in cui è stato ferito il tenente Silvio Imperato. Nel febbraio scorso, si trovava alla stazione marittima Molo Beverello di Napoli e, sotto una pioggia di fumogeni lanciati dai manifestanti, è stato centrato in pieno petto da un sasso. Trauma alla cassa toracica, guaribile in dieci giorni. «Si trattava di un servizio d’ordine pubblico: compito del mio plotone era impedire a un corteo non autorizzato che manifestava contro CasaPound di raggiungere il palazzo della Questura. Nonostante avessimo cercato di raffreddare gli animi, alcuni violenti hanno provato a forzare il blocco, bersagliandoci con un lancio di oggetti...».

«Il trauma peggiore» commenta Crepet «è quando patisci l’aggressione da solo, quando l’agente viene colpito lontano dai colleghi». Gli fa eco indirettamente Imperato: «In situazioni come quelle la prima regola è pensare a portare a termine il compito e garantire la sicurezza dei propri uomini, mantenendo il sangue freddo. Si ricorre alla forza solo quando è indispensabile per l’ordine pubblico, commisurando comunque il proprio agire al principio di proporzionalità. In quell’occasione, sono stato soccorso da due militari del mio contingente e da un collega della polizia. Sono grato a quegli uomini, che nella confusione dello scontro hanno avuto la prontezza di condurmi a una vicina ambulanza».

Perché in quei momenti nulla è scontato. Al pari di altre, la priorità è portare a casa la pelle.

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Gianluigi Nuzzi