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Papa Francesco, cambi il Vaticano

Mai come ora la Chiesa non può stare ferma davanti alla piaga della pedofilia che ne mina le fondamenta

Lo scandalo della pedofilia nella Chiesa non deve distrarre. È la classica punta dell’iceberg che nasconde qualcosa di ancora più grande: il silenzio endemico, sistemico, geometrico che ha soffocato ogni reazione per difendere i bambini e la Chiesa di tutti dagli abusi.

I segnali della portata devastante di questa metastasi sono stati per anni incredibilmente sottovalutati. Spesso per superficialità, colpa, ma anche per dolo e scienza criminale pur di evitare che si risalisse alla catena di responsabilità e coperture. Oggi i vescovi a capo di tutte le conferenze episcopali, riuniti in summit, si stracciano le vesti, fanno sfilare le vittime fino a ieri nascoste, si appropriano mediaticamente della denuncia, ma è troppo tardi.

Gli abusi sui bambini, ha tuonato Papa Francesco, sono «una piaga all’interno della Chiesa. La disumanità del fenomeno a livello mondiale diventa ancora più grave e più scandalosa nella Chiesa, perché in contrasto con la sua autorità morale e la sua credibilità etica». Tutto vero. Eppure questo già lo sapevano e nulla è stato fatto.

Aveva ragione Georg Gäsnwein, storico segretario fidatissimo di Benedetto XVI, quando nel settembre scorso sostenne che la pedofilia rappresenterà l’11 settembre per la Chiesa: «Oggi, la Chiesa cattolica guarda piena di sconcerto al proprio nine/eleven, al proprio 11 settembre, anche se questa catastrofe non è purtroppo associata a un’unica data, quanto a tanti giorni e anni, e a innumerevoli vittime». E, braccato dai dubbi, aggiunse: «Il lamento di Benedetto XVI ai vescovi americani del 2008 sulla profonda vergogna» causata dagli abusi sessuali «non riuscì a contenere il male, e nemmeno le assicurazioni formali e gli impegni a parole di una grande parte della gerarchia».

Insomma, fu un lamento «pronunciato invano come vediamo oggi». Proprio così: la pedofilia costituisce una ferita profonda nel corpo della chiesa moderna. Una ferita poco curata, tanto da provocare necrosi nelle comunità cattoliche che si trovano ad affrontare questa emergenza permanente senza orizzonte, speranza, contromisure, possibilità di vedere chi abusa e chi lo protegge cacciati da ogni tempio. E infatti il paragone di Gänswein con l’11 settembre degli Usa è vero solo nella prima parte, quello dello choc e della devastazione, delle vittime che camminano con la morte dentro, ma non in quello della reazione.

Dopo le Torri gemelle gli Usa ebbero una reazione ad alzo zero in tutto il pianeta. In pochi giorni chiunque aveva avuto a che fare con la famiglia di Osama bin Laden si vide messo in black list, i patrimoni sequestrati, le attività controllate dai servizi segreti. Era solo il primo passo di una guerra che dura tuttora, declinata in ogni forma. Per sei lunghi interminabili anni, invece, questo pontificato non ha considerato una priorità la lotta alla pedofilia.

Il testimone lasciato da Benedetto XVI, che spinse le diocesi americane a risarcire le vittime, è caduto nel vuoto. Joseph Ratzinger aveva compiuto una svolta epocale, riconoscendo la giustizia dei tribunali oltre a quella divina. Non aveva però avuto la forza di destrutturare il sistema delle protezioni a catena, già ben descritto nel film Il caso Spotlight. Non basta cioè condannare e ridurre allo stato laicale il sacerdote che abusa, serve individuare chi lo ha coperto e chi ha fatto finta di non vedere. Solo così si spezza questa catena che uno a uno sta tirando giù i pilastri del tempio. Se non colpisci chi copre, accrediti il messaggio insidioso dell’indulgenza della gerarchia ecclesiastica.

Una linea devastante che sforna ricatti, e, soprattutto, pregiudica il futuro di tutti con vescovi e cardinali dagli armadi stipati di scheletri, pronti a nuove omissioni misericordiose. La prova plastica di ciò si riassume bene nei disastri della commissione contro gli abusi del clero, che Bergoglio istituì nel 2014. La task force partì con le migliori intenzioni, cooptando diverse vittime che entrarono nel gruppo di lavoro. Peccato che in tutti questi anni non abbia mai fatto notizia per aver individuato e fatto condannare preti che abusavano o vescovi e cardinali che li proteggevano. No, l’unica volta che ha goduto dei riflettori dei media è quando la consigliera irlandese Marie Collins, vittima abusata da giovane da parte di un sacerdote, nel marzo del 2017 se ne andò sbattendo la porta: «È vergognosa la mancanza di cooperazione da parte della curia romana» nella lotta alla pedofilia.

Chi s’immaginava che Francesco raccogliesse la denuncia d’insabbiamento della Collins da parte di settori del Vaticano, cacciando i depistatori, è rimasto deluso. Il papa ringraziò la signora accettando «le dimissioni con profondo apprezzamento per il suo lavoro a nome delle vittime e dei sopravvissuti degli abusi del clero». Grazie e arrivederci. Eppure non era la prima a denunciare l’inattività.

Nei mesi precedenti un altro consigliere e vittima di abusi da parte di un prete, l’attivista inglese Peter Saunders, aveva sbattuto la porta per protestare contro l’atteggiamento dell’allora potentissimo cardinale George Pell, prefetto della segreteria per l’Economia. Saunders era allibito e scandalizzato perché Pell aveva risposto con certificati medici alle richieste di essere interrogato dalla commissione governativa australiana che all’epoca doveva far luce sugli abusi e la gestione dei sacerdoti colpevoli o sospettati di abusi nella diocesi di Melbourne, quando il porporato ne era l’arcivescovo. Era un segnale d’allarme, che doveva accendere un faro su questo porporato oggi clamorosamente in carcere dopo la condanna per pedofilia. Eppure nulla si mosse. Anzi la storia di Pell è una fulgida sequenza di errori clamorosi che lasciano senza parole.

Già nel 2010 Pell sembrava volersi allontanare il più possibile dall’Australia e aveva sollecitato l’allora segretario di stato Tarcisio Bertone a essere nominato prefetto della Congregazione per i Vescovi. Ma venne scelto il canadese Marc Ouellet. Arrivato papa Francesco, riuscì nell’impresa, conquistando un ruolo chiave: numero uno della nuova segreteria per l’Economia, un ufficio che Bergoglio vedeva nello scacchiere del potere per depotenziare la segreteria di Stato e lo strapotere dei dicasteri economici che andavano così sotto le dipendenze del cardinale australiano.

O, almeno, così sulla carta perché Pell incontrò mille resistenze per rendere la curia trasparente. Una guerra che vide schierati contro di lui cardinali del vecchio potere, uno sopra tutti era certamente il bertoniano Domenico Calcagno, ma anche quelli vicini a Bergoglio come lo stesso Pietro Parolin.

Se sui soldi le battaglie non si contano, sulle accuse di aver coperto preti pedofili che già montano nessuno fiata. Anzi, quando l’8 giugno 2016 Pell compì 75 anni e presentò al pontefice le dimissioni dall’incarico per raggiunti limiti di età, Francesco non le ha accolte, tenendole ferme sulla scrivania. Un cardinale amico di Francesco commentò: «Il Papa non vuole accogliere adesso le dimissioni di Pell altrimenti dovrebbe rimandarlo subito in Australia e lì finirebbe di certo male. Francesco vuole prima capire come si concludono le indagini per le accuse di pedofilia». E così le gaffes non sono mancate, come quando nel marzo 2016 ha testimoniato in video-collegamento - da un albergo di lusso di Roma - alla Commissione reale sulle Risposte istituzionali agli Abusi sessuali sui Minori e ha ammesso che «avrebbe dovuto fare di più» nei confronti dei sacerdoti sui quali si addensavano le peggiori accuse.

In quei giorni le vittime della pedofilia furono costrette a prendere a loro spese un volo aereo per seguire in diretta la testimonianza nella capitale di Pell senza che il Vaticano abbia offerto loro la minima accoglienza. Eppure sono curve tutte in discesa che era facile prevedere. E c’è forse da chiedersi perché Francesco, gesuita attento e prudente, abbia scelto come collaboratore «numero uno» un porporato esposto al vento di queste tremende accuse.

Nei sacri palazzi si mormora che un giorno tra i due ci fu un chiarimento. Francesco chiese a Pell se le accuse che gli venivano mosse erano fondate, il cardinale negò tre volte senza abbassare lo sguardo. Allora il pontefice gli disse «Vai e prosegui il tuo lavoro». Ma in realtà la credibilità di Pell era fortemente pregiudicata, tanto da riflettersi sui lavori della segreteria che presiedeva. Lavori che rallentarono ancor più quando il cardinale, due anni fa, dovette lasciare definitivamente i sacri palazzi, il comando del super dicastero, per andare a difendersi in Australia. E anche qui Francesco non dispose la sostituzione al vertice del polmone economico della Santa sede, mossa fondamentale per portare avanti riforme troppo annunciate. Anzi, lasciò Pell comunque formalmente al comando, seppur sospeso.

Il partito curiale si fregò le mani e prese di nuovo fiato. E così anche i detrattori di Bergoglio che lessero in questa mossa una fragilità del pontefice. Perché Bergoglio sottovalutò queste accuse? Le possibilità non sono molte. O nessuno aveva idea in Vaticano del reale quadro probatorio a carico di Pell. E questo non è credibile perché la Chiesa rimane una delle più efficaci strutture informative sul pianeta. O qualcuno con dolo presentò a Francesco una situazione diversa dal reale, alleggerendo la massa critica che poi ha investito il «cardinale ranger». E questo, a voler inseguire la dietrologia, per costringere un domani il Papa stesso a una brutta figura. Oppure perché lo stesso Papa non considerò le accuse gravi, seppur costituissero comunque quella che oggi bolla come «piaga mostruosa».

All’epoca però non utilizzava le stesse espressioni. Sceglieva altre parole. Per esempio, nel giugno 2017, alla rivista Civiltà Cattolica, dichiarava: «Circa gli abusi sessuali, parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere bene il problema». E ancor più il 21 settembre sempre del 2017: «Una persona che fa questo, uomo o donna, è malata: è una malattia». Ora, la pedofilia non è una malattia ma un reato, un reato dei più insidiosi. Da una malattia si guarisce: si trova l’antidoto, ci si cura e si ritorna al mondo guariti. Dalla pedofilia, invece, non si esce.

Ogni tentativo di recupero dei pedofili in carcere, per esempio, è andato fallito.

L’amministrazione penitenziaria istituì anni fa dei programmi sperimentali di riabilitazione nel carcere senza ottenere particolari risultati. A eccezione del carcere di Bollate, dove alcuni percorsi hanno consentito di ridurre la «recidiva». Nella Chiesa invece il prete pedofilo subisce processi canonici lunghissimi, viene portato in strutture particolari (una alle porte di Trento) per essere «recuperato» e, soprattutto, le investigazioni su anni e anni di coperture non vengono effettuate. Uno dei cardinali più vicini a Bergoglio, il tedesco Reinhard Marx, ha denunciato, durante il summit sul tema appena concluso, che sono stati distrutti i dossier sugli abusi sessuali in Vaticano. Una denuncia che dovrebbe determinare rapide indagini interne, per capire se, e in che misura, ciò è avvenuto e chi sono gli autori del reato. Eppure è facile prevedere che tutto questo non avverrà e sarà l’ennesima denuncia a cadere nel vuoto. Stessa sorte rischia un’altra indagine, stavolta compiuta dal promotore di giustizia vaticano, sulle denunce di abusi nelle camerate del pre-seminario che ospita i chierichetti del papa. L’inchiesta è ormai conclusa e tutti attendono di vedere cosa verrà deciso: processo o archiviazione? Dopo la riduzione di cardinali ormai indifendibili e l’arresto di uno strettissimo collaboratore, quale reazione studierà Bergoglio per invertire questa tendenza? Per far capire che la reazione ora sarà dura, concreta e non più affidata solo agli annunci? Ogni mossa, infatti, rischia di far perdere ancora credibilità a una Chiesa, si diceva una volta, «che sopravvive persino a certi sacerdoti!». Ma sarà ancora cosi? © riproduzione riservata

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Gianluigi Nuzzi