Budroni, ucciso a sangue freddo da un agente?
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Budroni, ucciso a sangue freddo da un agente?

Si riapre il caso della morte di un 40enne: è una replica del caso di Gabriele Sandri?

di Tommaso Della Longa e Alessia Lai

Sono le prime luci del 30 luglio 2011. Siamo a Roma, sul Grande Raccordo Anulare, all’altezza dell’uscita 11 “Nomentana – Mentana”. Il quarantenne Bernardino Budroni trova la morte, disarmato, ucciso da una pallottola sparata dalla pistola d’ordinanza di un agente scelto di 28 anni della Polizia di Stato. La prima ricostruzione parla di un inseguimento ad alta velocità, terminato con l’esplosione di due colpi. Budroni viene subito soprannominato lo “stalker” dalla stampa perché poco prima era stato a casa della ex ragazza, creando turbativa alla quiete pubblica e cercando di rompere un portone. Il corollario della vicenda è composto da alcune paginate dei quotidiani romani che parlano di inseguimenti a 200 chilometri orari e di una persona pericolosa che ha dato in escandescenze e che ha trovato la morte alla fine di un’operazione di polizia. Si apre un procedimento per omicidio colposo. Cala il sipario, con questa idea di uno stalker che un po’ se l’era andata a cercare. Nessuno si chiede nei mesi successivi cosa sia successo esattamente su quel tratto di strada, perché un poliziotto abbia sparato a un uomo disarmato.

A distanza di dieci mesi però ci sono la determinazione della famiglia di Dino e le prime carte ufficiali che fanno venir fuori quantomeno qualche punto interrogativo. La storia effettivamente fa acqua in più punti e, in attesa della perizia balistica, la relazione medico legale e la consulenza tecnica in infortunistica stradale, che abbiamo potuto vedere in esclusiva, rendono ancora più chiaro quello che non torna. I consulenti tecnici del sostituto procuratore, Giorgio Orano, evidenziano nero su bianco una serie di elementi a dir poco interessanti. “Questo caso è peggiore di quello di Gabriele Sandri – spiega l’avvocato della famiglia, Michele Monaco – Spaccarotella aveva sparato a una distanza di 60 metri, qui invece il poliziotto ha praticamente potuto guardare negli occhi il Budroni”. Come riportato nelle conclusioni dell’autopsia, firmata dal professor Costantino Cialella, “l’orientamento del tramite trapassante è quindi dall’indietro all’avanti, da sinistra verso destra e lievemente dal basso verso l’alto; tenendo conto dei dati circostanziali, che situano il corpo del Budroni all’interno di un’autovettura al momento del ferimento mortale, è da ritenere che il soggetto fosse con il busto reclinato in avanti e ruotato verso destra”. Parole tecniche per raccontare la posizione di un uomo che vede l’arma e in un’ultima disperata difesa alza la mano e sposta il corpo come a proteggersi dal colpo che sta per essere esploso. Nella ricostruzione delle modalità del sinistro, firmata dal consulente tecnico del P.M. ingegner Mario Scipione, l’autovettura del Budroni “a bassissima velocità, si adagiava sul guardrail metallico posto oltre il margine destro della carreggiata. Nella fattispecie, infatti, il guardrail riportava un’abrasione superficiale compatibile non con un vero e proprio urto ma con una manovra di accostamento”. In parole povere Dino è stato ucciso quando la macchina era praticamente ferma, dopo “un inseguimento a tre, nel quale le forze dell’ordine mettevano in atto la strategia di rallentamento cosiddetta “a triangolo”.

Nella fattispecie, "l’autovettura dei carabinieri sorpassava la Ford Focus (l’auto di Dino, ndr) e si metteva in testa con il proposito di rallentare la marcia del fuggiasco e le due volanti si affiancavano allo stesso […] al fine di non permettergli alcuna via di fuga”. A questo punto si riaccendono le luci della ribalta su un sipario calato troppo frettolosamente. Una domanda sorge spontanea: perché il poliziotto ha sparato contro un uomo disarmato che si era praticamente fermato dopo la manovra dei Carabinieri? E ancora, perché è stato raccontato di un inseguimento a folle velocità? Se Budroni fosse stato ucciso a 200 chilometri orari, la macchina senza più controllo avrebbe causato un incidente grave, non si sarebbe “adagiata” sul guardrail. Per non parlare dei racconti di Dino che sperona un posto di blocco di Polizia: sempre dalle perizie si evince che i danni delle macchine raccontano esattamente il contrario. È da notare però che neanche una macchina di banditi armati sull’autostrada verrebbe speronata dalla polizia. E allora cos’è accaduto in quei maledetti momenti?

L’idea è che qualcosa non torni e che sia stata raccontata una storia con molte incongruenze. D’altra parte già nelle prime pagine della relazione medico-legale c’è qualcosa che non va: nell’esame della documentazione presente in atti si legge che il mezzo di Budroni “è stato intercettato sul GRA e fermato con l’ausilio di un mezzo radiocollegato Arma”, come se i Carabinieri dicessero che quella macchina era stata fermata senza l’ausilio delle pallottole. E sempre nello stesso documento si legge che le vesti indossate da Dino arrivano al consulente tecnico in “una busta in plastica, chiusa con un nodo, recante sulla superficie libera una scritta “Lavanderia”; si scioglie il nodo dalla busta e si ha così modo di rilevare che all’interno della medesima sono contenuti i seguenti indumenti (nessuno dei quali in busta separata dagli altri)”. Un fatto quantomeno strano: i vestiti non dovrebbero essere catalogati come prove? Possono essere tenuti in una busta della lavanderia? Tante, troppe, domande che si sommano a una ricostruzione oraria messa in dubbio da uno scontrino trovato nel portafoglio della vittima.

Domande che esigono risposte, prima di tutto per una famiglia che ha perso un figlio e un fratello senza un perché. L’appartamento di Dino è accanto a quello dei genitori e della sorella. Qui tutto è rimasto com’era quella notte. Il letto ha ancora oggi le lenzuola scostate. Dino si era cambiato prima di uscire di casa e gli abiti che si era tolto sono ancora li, su una sedia del piccolo tinello. La famiglia ha lasciato tutto così. Tutto si ferma quando la disgrazia arriva inaspettata e congela cose e persone. Quella notte un amico che ha riconosciuto la Focus li ha chiamati per un “incidente”, quando Dino era già morto. Ma non era un incidente del sabato sera. Era un colpo di pistola, anzi, due. Nessuno li ha mai chiamati, nessuno si è preoccupato di come potesse stare quella famiglia. Intanto iniziava la demonizzazione di Dino come se la storia dello “stalker” potesse giustificare l’ingiustificabile, una fine che non meritava, e potesse assolvere preventivamente il poliziotto che lo ha ucciso. A distanza di dieci mesi, però, la mamma, il papà e la sorella di Dino non demordono e chiedono che di questa storia se ne parli nuovamente. “Non è possibile che nessuno abbia il coraggio di raccontare la storia di mio fratello”, tuona Claudia, la combattiva sorella. “Aspettiamo ovviamente la perizia balistica – spiega l’avvocato Monaco - ma dalle informazioni in nostro possesso sembrerebbe un’esecuzione”. Se è stato un errore, se è stata una fatalità o una pazzia, comunque vada, quelle risposte devono arrivare. Chi ha sparato è un rappresentante dello Stato, cioè qualcuno che rappresenta tutti noi e ci dovrebbe difendere: è per questo che il silenzio non è né accettabile né tollerabile.

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