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Mostro di Foligno: "Adesso non bisogna lasciarlo solo"

Secondo lo psicologo forense che ha seguito Luigi Chiatti, ora servono precauzioni straordinarie, per evitare che uccida ancora

Sono trascorsi pochi giorni dal suo arrivo inSardegna, ma la sua presenza continua a far parlare ma soprattutto a preoccupare. Non c’è paura o ansia tra gli operatori che devono assisterlo ma tra la cittadinanza che deve ospitarlo. Luigi Chiatti, ovvero il mostro di Foligno, condannato a 30 anni per gli omicidi di Lorenzo Paolucci, 13 anni, e Simone Allegretti, di 4, sta creando non pochi malumori e polemiche.

Il furgone della polizia penitenziaria e la scorta hanno varcato i cancelli della Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Capoterra, a pochi chilometri da Cagliari il 5 settembre scorso.
Ma qui, in Sardegna, Luigi Chiatti ci resterà fino a novembre ovvero il tempo necessario per completare la Rems in Toscana, regione che lo ha ospitato negli anni di detenzione scontati nel carcere di Prato.

In servizio alla Rems ci sono quattro psichiatri, uno psicologo, un tecnico della riabilitazione, dieci infermieri, cinque operatori socio sanitari, un amministrativo e un assistente sociale.

Silvio Ciappi, psicologo forense che ha seguito per anni Luigi Chiatti, secondo lei, il mostro di Foligno potrebbe uccidere ancora?

È una valutazione che non posso fare e che non voglio fare. Ho conosciuto Luigi Chiatti per diversi anni ed il monte di ore passato con lui mi fa avere delle idee precise al riguardo della persona. Ciò nonostante mi attengo a un principio diciamo di etica professionale che vuole che ogni dato clinico sia riferibile alla situazione presente e frutto di un colloquio e di una metodologia accurata svolta nel momento attuale. Nel nostro lavoro occorre saper valutare attentamente i fattori di rischio criminali e la cosiddetta probabilità di recidiva. Sul punto esistono metodologie accurate che però spesso vengono disattese, vuoi perché l'aggiornamento dei professionisti è carente, vuoi perché per fare valutazioni del genere ci si affida più all'allarme sociale che alla clinica.
In via generale posso dire che la recidiva nell'omicidio non risponde solo a questioni psicopatologiche ma anche a fattori situazionali che devono essere ben valutati e presi in considerazione. Fattori che vanno a costituire una sorta di 'epigenetica' criminale, ovverosia circostanze che possono o meno attivare tendenze di fondo. Bisogna quindi valutare bene la dinamica che ha mosso i delitti e cercare di vedere quali potrebbero essere gli scenari che potrebbero riattivare un agito violento. Se non si fanno valutazioni serie quello che posso dire è che la probabilità di rischio salirebbe consistentemente anche perché soggetti del genere avrebbero l'impressione di non essere stati capiti oppure più malevolmente di riuscire ad ingannare anche gli esperti, con la possibilità che il loro narcisismo li porti ancora una volta ad agire indiscriminatamente, al di fuori di ogni controllo.

Che cosa potrebbe far scattare il suo desiderio di avvicinarsi ad un bambino per ucciderlo?

Ripeto non lo so. So che nella genesi di quegli odiosi omicidi c'era la rabbia, la dissociazione, un mix ben congegnato di psicopatia e lucidità. I delitti a mio avviso rispondevano a una personalità ossessivamente ben strutturata, dove il delirio era sullo sfondo. C'era quindi inadeguatezza. Ma c'erano anche tutti gli esiti di quello che si chiama trauma complesso, il tutto era ben celato, nascosto all'interno di una organizzazione di personalità apparentemente strutturata. Dentro c'era però il vuoto lasciato probabilmente da un'infanzia crudele e dal quale si era originata una personalità dissociata. Ecco perché la rabbia, l'odio, la violenza contro tutto il mondo, contro i bambini.

Conoscendolo così profondamente, lei si è fatto un’idea di come debba essere seguito il Chiatti?

Deve essere seguito passo per passo, con professionisti che a loro volta vengono supervisionati. la supervisione in questi casi è importantissima. L'esperto corre il rischio di essere lasciato 'solo'. E' importante poi che nella valutazione forense intervengano tutte le metodologie più accurate. Esistono metodologie e strumenti per valutare e diagnosticare l'aggressività importantissimi. E soprattutto occorre uno ‘scansionamento’ periodico di tale valutazione, fatta speranzosamente con i soliti strumenti, e non da 'esperti' che adottano le più svariate metodologie spesso in conflitto tra loro. Mi verrebbe da pensare che in fase clinica sia utile coinvolgere non solo il soggetto ma anche altri soggetti interessati. Ripeto su certe valutazioni delicatissime esistono strumenti aggiornati che devono essere utilizzati. Soprattutto si deve avere il cervello sgombro da ogni pregiudizio. Altrimenti è inutile la valutazione, si 'butta via la chiave' e risparmiamo i soldi di eventuali consulenze.

Per un uomo che si è macchiato di quelle atrocità e ha dichiarato la sua felicità nell'uccidere, come potrà vivere il resto della sua esistenza in mezzo ad una comunità?

Esistono possibilità intermedie. Io valuterei sempre a seguito di periodiche valutazioni 'positive' la possibilità di monitorare il soggetto in ambiente chiuso o semichiuso. Nel far questo, ripeto, occorre un team di lavoro, di esperti, di supervisione, e soprattutto da parte del soggetto, l'adesione a regole chiare. Credo che possa essere importante anche un tentativo di avvicinamento, diretto o indiretto, con le vittime della comunità ferita. Dico questo perché se ha un senso la valutazione forense, che è una valutazione medico-psicologica, lo ha nel contribuire a produrre il minor livello di sofferenza possibile (nel soggetto, nella comunità, nei familiari) altrimenti i “saperi” psichiatrici e criminologici divengono strumenti o di buonismo insensato o di vendetta sociale.


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Nadia Francalacci