Le bugie del pentito, Rosario Cattafi
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Le bugie del pentito, Rosario Cattafi

Le sue dichiarazioni contestate da testimoni e dalle mappe del carcere di Sollicciano

di Anna Germoni

Al processo Mori-Obinu, imputati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Provenzano nell'ottobre del '95, verrà ascoltato il dieci novembre l’avvocato barcellonese Rosario Cattafi, legato al boss Nitto Santapaola.

Arrestato per la terza volta, l’estate scorsa e in regime di 41 bis, decide di collaborare con la magistratura. Ascoltato dalle procure di Messina e Palermo, la sua deposizione finisce anche, insieme al milione di carte dell'udienza preliminare del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia che si è celebrato a Palermo, davanti al gup Morosini, a porte chiuse il 29 ottobre.

Cattafi dichiara di aver svolto il ruolo di "ambasciatore" per conto dell’allora numero due del Dap, Francesco di Maggio (morto nel 1996), con cui si incontrava spesso,  per avviare contatti con Cosa nostra, in particolare con il boss Nitto Santapaola. E lo fa anche quando era in isolamento carcerario, nelle stanze dei direttori penitenziari, sia a Sollicciano sia a Milano. Il suo ruolo, di intermediatore dal carcere con le Istituzioni e con la mafia, potendo "promettere qualunque cosa a Nitto Santapaola".

Questi contatti fra il Cattafi e il Di Maggio come avvenivano? Nel verbale del 28 settembre scorso lo spiega davanti agli inquirenti della procura di Messina, “mentre ero detenuto presso il carcere di Sollicciano, reparto isolamento, avevo mantenuto rapporti con il dottore di Maggio, con il quale, all’interno di quello stesso carcere, intrattenevo rapporti telefonici. Infatti, mi recavo nella stanza del direttore, ovviamente con il suo consenso, e parlavo con Di Maggio al telefono”.

Specificando meglio dichiara: “Mentre tornavo al carcere di Sollicciano, ho ricevuto delle telefonate provenienti dal Ministero ed in particolare dal dottore Di Maggio. Venivo portato nella stanza del direttore Quattrone, costui chiamava al telefono il Ministero e mi passava il dottore Di Maggio. Non so se Quattrone sia ancora vivo, si trattava di persona molto alta con i capelli neri e di bell’aspetto. Il suo ufficio era al primo piano, di fronte all’ingresso avvocati. Di Maggio anche in questo caso mi esortò ad avere contatti con Cuscunà (Salvatore Cuscunà, boss e uomo di Nitto Santapaola  n.d.r. )”.

Il dottor Paolo Maria Quattrone, non può testimoniare. E’ morto suicida a luglio del 2010 per non aver retto l’onta di un rinvio a giudizio dalla Procura di Cosenza, per abuso d’ufficio, in un’inchiesta su contrasti che il funzionario aveva avuto con il direttore del carcere di Cosenza sui lavori di ammodernamento della struttura. Provato da quel rinvio a giudizio, si sparò una pistola alla tempia, mentre era provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Calabria. La famiglia Quattrone, attraverso il suo portavoce, Mario Nasone, appena sapute le “rivelazioni” di Cattafi, ha inviato una lunga nota in esclusiva a Panorama annunciando una querela per calunnia.

“Le parole del “neo pentito” -si legge nella missiva- sono ridicole, oltraggiose e vergognose. Il dottor Quattrone è sempre stato un leale e integerrimo uomo di Stato, di Giustizia e di Cultura. Ha combattuto la mafia in ogni sua forma e non ha mai trattato con essa. Era schivo e incorruttibile. Dalla ‘ndrangheta ha ricevuto numerose intimidazioni e attentati. Il più grave, una bomba esplosa nella sua camera da letto, quando dirigeva il carcere di Reggio Calabria. L’allora capo del Dap, Nicolò Amato, per salvargli la vita lo trasferì a Sollicciano”. La nota continua, “la signora Guglielma Quattrone, ha lavorato in quella struttura carceraria. La conosce bene. Mai permesso ad alcun recluso di varcare la sua stanza. Impossibile anche tecnicamente, che si potesse arrivare alla Direzione, in una palazzina lontana oltre un chilometro dalle celle giudiziarie e penali. Un carcere tra l’altro, come quello di Sollicciano che per architettura e per misure di sicurezza dal 1992 in poi era sotto stretta sorveglianza, con tutte le annotazioni di servizio, come da regolamento. Queste calunnie ignobili sono destituite di ogni fondamento. Non permettiamo che venga infangato il suo nome, la sua integrità morale, il suo vigore delle sue azioni istituzionali”.
Dalla planimetria della casa circondariale, a forma di giglio, simbolo di Firenze, si può vedere che i numeri 1 e 2, sono le sezioni detentive, penali e giudiziarie, mentre al numero 20 c’è la Direzione. Un tragitto che Cattafi, avrebbe dovuto percorrere dalla cella di isolamento,  con la compiacenza sia del dottor Quattrone sia degli agenti penitenziari di turno.

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Anche dalla mappa satellitare, si può osservare il percorso che l’avvocato barcellonese avrebbe dovuto attraversare, dal settore detentivo in cui era recluso in isolamento, per approdare alla stanza del dottor Quattrone.

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Come mai, si è scelto un luogo così audace e super controllato come la stanza di un direttore carcerario per tali incontri segreti? Così agevole uscire da una cella di isolamento nell’ottobre del 1993?  Il direttore se fosse stato complice di tali episodi, raccontati dal Cattafi, avrebbe dovuto garantirsi anche la corresponsabilità degli agenti penitenziari di turno, quali? E in che maniera il funzionario, ottenne la “correità” al silenzio degli agenti?

Parole ferme a favore del provveditore, sono espresse anche dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che attraverso il segretario generale, Donato Capece, annuncia a Panorama una querela per calunnia nei confronti di Cattafi.

“Il Sappe – afferma Capece -  testimonia tutta la sua indignazione per chi calpesta e viola il rispetto della morte, la solidità dell’onestà umana e professionale del dottor Quattrone e dei suoi agenti penitenziari. La serietà di un uomo di Stato non può né deve essere messa in discussione in questa maniera così vergognosa. Questo vale anche per i miei agenti. Quereleremo questo signore per calunnia”.

Ma Cattafi che ha riempito centinaia di pagine verbali, ha anche affermato che “nel ’94 o ’95, mentre ero detenuto a Milano Opera, fui convocato nella stanza del direttore, dottore Fabozzi. Una volta che venni portato lì trovai il dottore di Maggio. Costui mi comunicò che presso il carcere di Milano Opera era o forse sarebbe arrivato il palermitano Ugo Martello, che io non conoscevo. Di Maggio mi disse che si trattava di un personaggio importante appartenente alla mafia palermitana e che proveniva dal 41 bis, che era stato collocato nel mio stesso carcere e nella mia sezione. Di Maggio mi chiese in quella occasione di recare un messaggio preciso al Martello. Mi disse di fare amicizia”.

Il dichiarante spiega: “Martello in sostanza, doveva riferire ai palermitani che si doveva portare avanti il discorso della dissociazione e che in cambio costoro avrebbero ricevuto dei vantaggi da parte delle Istituzioni…Di Maggio mi disse che ci saremmo risentiti e che se avevo bisogno di qualcosa lo dovevo comunicare semplicemente al dott. Fabozzi”.

Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, Aldo Fabozzi replica: “All’epoca non c’era il regime del 41 bis ad Opera. Di che parliamo? Nella mia lunga esperienza professionale, mai ho permesso che un detenuto oltrepassasse la porta carraia. Figuriamoci il resto! Inoltre il mio ufficio era fuori dalle sezioni detentive. All’esterno. Ho conosciuto molto bene Di Maggio. Oltre al fatto che non mi sono mai occupato come direttore  di strutture carcerarie, poi come provveditore di vicende che non mi competono, come quelle giudiziarie, posso garantire che Di Maggio, magistrato serio, fra i migliori, con valori istituzionali ferrei e inossidabili, mai avrebbe trattato con la mafia, mai sceso a compressi o a semplici contatti con malavitosi. Mai avrebbe messo in difficoltà il direttore di un istituto carcerario. Queste dichiarazioni sono fuori da ogni logica. Un affronto alla memoria di un magistrato per bene e alla sua intelligenza”.

Rosario Cattafi, è considerato il tesoriere della mafia.  Arrestato nel 1984 in Svizzera per associazione mafiosa e  per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati viene prosciolto per insufficienza di prove. Furono gli stessi pm Davigo e Di Maggio a chiedere il proscioglimento. Nell'ottobre 1993 viene di nuovo arrestato per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, proprio nell'ambito dell'inchiesta sull'autoparco di via Salomone a Milano,  ritenuto il centro direzionale di Cosa nostra nel nord d’Italia,  da parte della procura di Firenze  e messo in isolamento nel carcere di Sollicciano, a Firenze.

“Questo personaggio ha origini ordinoviste”, spiegò nel 1995 l’allora procuratore della Repubblica di Firenze Pier Luigi Vigna all’Antimafia. E i militari del Gico, “prima di far parte di Cosa Nostra, al tempo in cui frequentava l’Università di Messina, Cattafi era un terrorista”, scrissero il 3 aprile 1996 in un’informativa su un presunto traffico di armi a livello internazionale. Dopo una condanna in primo grado a 11 anni e 8 mesi, di cui 4 anni scontati in carcere, la sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo,  viene assolto perché dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali che avevano documentato le sue frequentazioni mafiose. Anche le procure di Messina e di La Spezia si sono occupate di lui, per un presunto traffico di armamenti pesanti, con paesi sottoposti ad embargo. Si archiviò per mancanza di prove. Nel 1998 sottoposto ad indagini, anche queste archiviate, da parte delle Procure di Caltanissetta e Palermo sui cosiddetti “mandanti occulti” delle stragi del ‘92-‘93. Il suo nome viene accostato a Totò Riina, Nitto Santapaola, a Licio Gelli,  all’ordinovista Stefano delle Chiaie e a Filippo Battaglia. Il 24 luglio scorso, di nuovo in manette dagli inquirenti di Messina sugli affari più recenti del clan  mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto e su una serie di omicidi  rimasti insoluti.

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