La "buona fede" di Massimo Ciancimino
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La "buona fede" di Massimo Ciancimino

Secondo i pm palermitani che hanno ricorso in appello per l'assoluzione del gen. Mori, il figlio dell'ex sindaco di Palermo è ritenuto ancora oggi attendibile. Nonostante tutte le incongruenze delle sue dichiarazioni

 

«La sentenza non tiene conto della possibile “buona fede” del teste assistito (Massimo Ciancimino, ndr), che peraltro per lo più riferisce fatti che gli sono narrati da altri e che non ha vissuto personalmente». Questo è uno dei passaggi con cui la procura di Palermo ricorre in appello contro l’assoluzione dei due ufficiali dell’Arma Mario Mori e Mauro Obinu, «perché il fatto non costituisce reato», emessa il 17 luglio scorso dal tribunale sulla mancata cattura del boss BernardoProvenzano nell’ottobre 1995. In 88 pagine, piene di pathos e liricità, il pm Antonino Di Matteo, con le firme dell’aggiunto Vittorio Teresi e del procuratore Francesco Messineo, confida «per una più corretta valutazione dei fatti» di ribaltare la sentenza.

La «buona fede» di Massimo Ciancimino, uno dei testimoni più controversi della storia giudiziaria italiana, è «palese» per i pm Di Matteo e Teresi: e la corte, che invece lo ha ritenuto totalmente inattendibile, trasferendo alla procura il fascicolo delle sue testimonianze per individuare eventuali reati a suo carico, commette un errore, perché c’è stata «acquisizione di riscontri, parziali ma significativi, almeno ad una parte delle sue dichiarazioni».

L’atto contiene pungenti critiche nei confronti dei giudici, che nelle 1.322 pagine di motivazione dell’assoluzione Mori-Obinu hanno praticamente polverizzato il castello accusatorio dei pm, bacchettandoli per alcune tesi «troppo enfatizzate» e per avere portato nel processo (durato 5 anni con oltre 90 testimoni) mere «ipotesi», con la loro «diffusa inclinazione a trasformarle in atti, sforniti di prova». I pm nel ricorso respingono al mittente le accuse, addebitando alla corte di aver «dimenticato i fondamentali concetti giuridici», di «numerose incongruenze», di «un percorso motivazionale per molti versi illogico e contraddittorio» e di «valutazione eccessiva e ingiustificata» per aver dichiarato inattendibili i pentiti Brusca, Lo Verso, Mutolo e Cancemi, per l’assenza di riscontri e di verifiche solide alle loro dichiarazioni, fondamentali invece per la procura.

Secondo i pm palermitani, «Mori e Obinu, in un determinato frangente storico particolarmente delicato per il nostro Paese, probabilmente assecondando indirizzi di politica criminale anche da altri soggetti predeterminati, per contrastare la deriva stragista di Riina hanno ritenuto di trovare un rimedio nell’assecondare la prevalenza, in seno alla compagine mafiosa, della sua ala più moderata». Ovvero «Mori, ha “coperto” la latitanza di Provenzano per consolidare il potere della fazione di Cosa nostra che (in esito ai taciti accordi scaturiti dal periodo stragista, dalle minacce alle istituzioni e dalle parallele trattative) aveva promesso e garantito il definitivo abbandono della linea di scontro violento ed incondizionato con lo Stato».

 

Il paradosso è che i pm palermitani tentano di riattribuire una patente di credibilità a Massimo Ciancimino: indagato da cinque procure d’Italia, già condannato a 3 anni per detenzione di esplosivo e interdetto per 5 anni dagli uffici pubblici, arrestato e imputato di calunnia aggravata nella stessa Procura di Palermo per avere confezionato un documento falso nel quale si ipotizzava che l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro avesse avuto un ruolo di primo piano nella «trattativa» fra Stato e Cosa nostra. Il documento è una fotocopia di un foglio redatto da Vito Ciancimino, il padre di Massimo, con un elenco di nomi di personaggi delle istituzioni che avrebbero avuto un ruolo nella stessa «trattativa». Non basta: Ciancimino ha costretto altri pm siciliani a rogatorie internazionali e a trasferte in America, Canada, Liechtenstein, alla ricerca del “Signor Carlo/Franco o Roberto”, il misterioso personaggio che a suo dire sarebbe un uomo dei servizi, legato ai boss, primo attore della presunta trattativa Stato-mafia.

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Anna Germoni