Il padre non era un pedofilo. Per scoprirlo ci sono voluti dieci anni
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Il padre non era un pedofilo. Per scoprirlo ci sono voluti dieci anni

Un bambino conteso. Una madre che denuncia l'ex marito, costretto a vedere il figlio sotto sorveglianza. Alla fine, l'assoluzione. Ma chi risarcirà il piccolo Felice? Il caso del bimbo di Padova

«Il padre è violento: insulta la moglie, maltratta il bambino». «Il padre è irascibile: ha scagliato un’automobilina sul figlio, per punirlo d’averlo svegliato». «Il padre è morboso: in classe, con i suoi alunni, parla ossessivamente di masturbazione». «Il padre è pedofilo: tocca il bambino e si fa toccare, lo bacia sul sederino, sul collo, gli succhia le dita».

Un bambino conteso. Una madre che lancia contro il marito un crescendo di accuse, fino a denunciarlo alla procura della Repubblica per abusi sessuali. Un processo che, tra rinvii, primo grado, appello, va avanti per dieci anni. Un padre che deve accontentarsi di vedere suo figlio quando può, in strutture protette, in incontri strettamente sorvegliati. Fino all’assoluzione.

E’ la storia di Felice, una storia che somiglia a quella di Leonardo, il piccolo sottratto alla madre e riconsegnato al padre con un blitz di polizia a Cittadella. In più, nel caso di Felice, c’è la fragilità di un bambino con un disturbo del linguaggio e il peso tremendo dell’accusa di abusi sessuali scagliata dalla madre contro il padre per sottrargli la patria potestà. «Ma la differenza vera con ciò che è accaduto a Leonardo è che il padre di Felice ha avuto la lucidità e la saggezza di non rivolgersi mai ai carabinieri, di non rispondere colpo su colpo agli attacchi della moglie quando la risposta avrebbe intercettato il bambino» osserva Antonio Gerbino, che ha ricostruito la vicenda in un e-book, Felice non ha voce.

Giornalista, Gerbino ha ripercorso l’intera vicenda giudiziaria, il turbine di perizie, convocazioni di esperti, interventi di psicologi e ha calcolato anche il prezzo di tutto questo: 78mila euro, spesi per avvocati e consulenti, dalla denuncia all’assoluzione. Dietro i bambini contesi, alle spalle degli stessi genitori che si sfiancano in guerriglie ostinate e crudeli, si profila un business opaco. «C’è una complicità dei tecnici, avvocati, periti, psicologi, legati da un comune interesse economico» dice Gerbino. «E c’è un interesse delle comunità che accolgono i minori contesi, con un giro d’affari impressionante».

Felice, che aveva sei anni quando sua madre denunciò il marito dichiarando, spalleggiata dalla sua famiglia d’origine, che era un pedofilo, non ha mai recuperato il suo ritardo. Una volta sola un pubblico ministero provò a sentirlo: il bambino fece un sorriso, disse quanti anni aveva e uscì dall’aula. Frequentava la scuola quando un giornale sparò nei titoli e nelle locandine la notizia: «Bimbo handicappato violentato dal padre». Non ha mai concluso gli studi. Al processo, la madre accusò il padre di fotografare il figlio nudo, esibì cinque immagini. «Anch’io ho centinaia di foto dei miei figli nudi», commentò il giudice. In una videocassetta girata con l’assistenza di una psicologa, si sente la madre suggerire al figlio: «Anche il diavoletto vuole sapere che cosa ti faceva papà sul pippo».

Conclusa con la seconda assoluzione in appello la guerriglia giudiziaria, la madre ha deposto le armi. «Il padre può vedere il figlio con tranquillità, vanno insieme allo stadio, i rapporti con l’ex moglie sono diventati normali» racconta Gerbino. E conclude: «Bisognerebbe approvare una legge che stabilisce il tempo massimo di durata dei processi quando sia coinvolto un minire. Dieci anni, nella vita di un bambino, sono un’eternità».

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Bianca Stancanelli