Il cu... di chiamarsi Alcoa
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Il cu... di chiamarsi Alcoa

Oscurate dalle grandi, le piccole vertenze sono invisibili. Il caso dell'Icb di Padova: "Noi lavoratrici di serie B!"

Detto con tutto il rispetto per il dramma che stanno vivendo gli operai sardi dell'Alcoa, i minatori della Carbosulcis, i lavoratori dell'Ilva di Taranto, ma a tutti gli altri chi ci pensa?

Anche le oltre 150 vertenze di cui si sta occupando il ministero dello Sviluppo rappresentano appena una goccia nel mare della crisi in cui stanno affogando migliaia di micro aziende sparse sul territorio (le famose "piccole e medie imprese", quelle che sono la base dell'economia del nostro paese) i cui dipendenti (pochi) sono invisibili agli occhi del governo, spesso anche dei sindacati, dei media e quindi dell'opinione pubblica.

Perché non hanno i numeri per organizzare cortei nel centro di Roma; perché sono madri di famiglia e non si arrampicano in cima ai silos; perché non si tagliano i polsi a 400 metri di profondità e se smettono di cucire giacchette non importa a nessuno. Intanto non sarà per questo che l'economia di un'intera regione, come si è detto per la Puglia o per la Sardegna, rischia di fermarsi. Ma sono persone, per le quali la perdita del posto di lavoro è una vera e propria tragedia (come per chiunque altro).

Lavoratori e lavoratrici di serie B, benché altamente specializzati, che non meritano uno straccio di editoriale in prima pagina. Che al massimo finiscono in sterili statistiche e di cui non vedremo mai né il volto né il caschetto né il passamontagna.

Come le 70 sarte della Icb di Legnaro, alla periferia di Padova. Mamme, nonne, vedove, figlie rimaste da qualche mese senza stipendio, a rischio licenziamento, e che all'inizio di settembre hanno occupato, a riflettori spenti, la loro fabrichetta.

Lo hanno fatto dopo che l'azienda aveva chiesto loro uno sforzo eccezionale, fino alla rinuncia a una settimana di ferie ad agosto, per ultimare una commessa importante: qualche migliaio di giacche da uomo che dovevano essere pronte alla svelta, ordinate dal loro unico committente, la prestigiosa sartoria Raffaele Caruso di Soragna (Parma), 600 addetti, uno show room in via Monte Napoleone a Milano e l’ambizione di una joint venture con aziende cinesi per far partire il primo brand di lusso made in Italy in Cina.

Peccato che poi la “prestigiosa sartoria” non abbia pagato il lavoro e per giorni abbia addirittura evitato di rispondere al telefono. Risultato: niente stipendio. Così le lavoratrici che ancora aspettano, senza speranza, sette mensilità dal vecchio proprietario fallito, si sono rifiutate di consegnare una parte delle giacche confezionate e per impedire che se le venissero a prendere di forza hanno piazzato le brandine in mezzo ai macchinari.

Marica, 32 anni, è una di loro. Cuce tasche da quando la sua azienda si chiamava Forman e fu venduta al penultimo proprietario. Quello da cui ancora aspetta, dopo tante promesse, quasi un anno di stipendio. Adesso è in cassa integrazione. Nonostante ciò, anche lei ha rinunciato alle ferie per rispettare i tempi di consegna, ha perso la caparra del viaggio prenotato e quando, il 27 agosto scorso, le hanno detto che i soldi della paga di luglio non c'erano, insieme alle sue colleghe, si è rifiutata di rimettersi a cucire e di far partire le giacche già pronte.

In 70 si sono riunite in assemblea, hanno chiamato mariti e fidanzati e si sono fatte portare le sdraie da spiaggia. Per dormirci. Perché senza stipendio da lì non si sarebbero più mosse. E di continuare a lavorare gratis non se ne parlava proprio.

“I primi giorni eravamo anche senza luce perché ce l'avevano staccate, ma abbiamo resistito - racconta - ci siamo attrezzate con un piccolo generatore e fornelletti da campo per farci il caffè”.

Certo, qualche giornalista della stampa locale è passato, Susanna Camusso ha fatto una visita per esprimere loro solidarietà, ma Marica non si illude: “Di noi non importa niente a nessuno”. Perché secondo lei? “Forse perché non ci sono troppi interessi in ballo, eppure si tratta sempre di 70 famiglie che restano in mezzo alla strada”.

“Certo che ci sentiamo trattate come lavoratrici di serie B! Se sono in mille a perdere il lavoro è una tragedia, se sono solo dieci non importa a nessuno, come se anche a queste persone non cascasse addosso il mondo” sbotta Maristella Viola, delegata della Filctem Cgil, che denuncia “se poi c'è un piccolo passo in avanti nelle trattative, spariamo anche dalle ultime pagine dei giornali locali. Qualche giorno fa mi avevano contattato alcune televisioni nazionali per intervistarmi in trasmissione, ma quando hanno saputo che ci era stata appena pagata una parte dello stipendio di luglio hanno ritirato l'invito”.

Perché? “Perché non facevamo più notizia”.

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Claudia Daconto