Gli schiavi dell'elemosina di Milano
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Gli schiavi dell'elemosina di Milano

La Polizia Municipale ieri ha liberato 32 disabili costretti a mendicare ai semafori della città. Un dramma non nuovo

Dopo un anno di indagini la Polizia Municipale di Milano ha arrestato un gruppo di rom che gestiva un gruppo di 32 persone, storpi, invalidi, disabili di vario genere, comprati in Romania per pochi euro e poi costretti a chiedere l'elemosina tra i marciapiedi della città. Una storia di vera e propria schiavitù purtroppo non nuova. Ecco cosa scoprì, dua anni fa, in un'inchiesta analoga, il cronista di Panorama

Il primo passo giusto l’hanno fatto insieme, una sera dell’ottobre scorso. Hanno denunciato il loro sfruttatore: da allora Aurica e Iasar sono al sicuro in una comunità protetta. Si erano conosciuti e innamorati la scorsa estate, chiedendo l'elemosina mentre zoppicavano ai semafori e nella metropolitana di Milano. Ma dalla loro scelta d'amore oggi potrebbe forse dipendere la libertà di centinaia di altri sfortunati schiavi: gli storpi di Milano che rendono milioni di euro al racket.

Aurica e Iaser sono entrambi romeni, e sono legati anche dalla deformità. Lui, 35 anni, ha le gambe gravemente menomate e si muove con due stampelle di legno quasi medioevali. Lei, che di anni ne ha 27, è claudicante per una poliomelite infantile che le ha deformato un arto. Arrivano da due piccole città del loro Paese, dove sono stati comprati e rivenduti a un solo scopo: arricchire i clan degli sfruttatori.

Sulle strade di Milano Aurica e Iasar, giorno dopo giorno, si sono innamorati, si sono fatti coraggio a vicenda e hanno deciso che la loro vita doveva cambiare. Alla fine di ottobre, all'ennesima richiesta di documenti da parte della Polizia locale che li aveva fermati in una stazione della metropolitana mentre chiedevano la carità, hanno deciso di raccontare la loro storia, di chiedere aiuto e di denunciare i loro aguzzini. Gli agenti della squadra Puma dei vigili, quelli del Nucleo per la tutela del trasporto pubblico, li avevano già fermati decine di volte. E ormai con gli agenti si era creato un rapporto di fiducia. Così, approfittando di un attimo di distrazione del loro carceriere, i due storpi innamorati hanno sussurrato a un ispettore la loro intenzione. E la macchina investigativa si è messa in moto. I due sono stati portati al comando, hanno fatto nomi e indirizzi.

La sera successiva i vigili in borghese della squadra Puma sono entrati in un appartamento di via Candiani, una zona a nord di Milano. Qui hanno sorpreso otto mendicanti e arrestato, con l’accusa di tratta di essere umani e di riduzione in schiavitù, il presunto capo di quella «corte dei miracoli»: il suo nome è Sachir Asan; ha 37 anni, anche lui è romeno e menomato alle gambe.

Purtroppo, 48 ore dopo quel blitz il cronista di Panorama si è presentato allo stesso appartamento scoprendo che nulla era cambiato. Ad aprire la porta, con fare sospettoso, è un romeno, parente dell'arrestato. All'interno di tre stanzette sporche, disadorne e calde fino ad asfissiare, ci sono soltanto lui, la moglie dell'arrestato, e due bambini, uno di pochi mesi e l'altro di un anno e mezzo, che tossiscono convulsamente su un lettone. Nessuno parla l'italiano e viene chiamato, come interprete, un connazionale che abita al piano di sopra. I due negano ogni accusa, difendono il parente arrestato e giurano sulla sua buona fede. Finché, quasi al momento di andar via, intorno alle 23, suona il campanello. L'atmosfera si fa tesa. E infatti si apre la porta e il segreto si svela. Entrano prima una donna anziana con la spazzola per lavare i vetri, poi uno zoppo, seguito da un giovane con i due piedi rivolti all'indietro, come se li avessero avvitati su se stessi, e infine altri due mendicanti, che nel loro stentato italiano, confermano di fare i lavavetri e di fingersi affetti da menomazioni. Spiegano che il padrone di casa non chiede loro niente: li ospita per qualche euro al giorno e gli dà perfino da mangiare. La realtà però è ben diversa. Dopo i saluti e il congedo, il cronista resta nei paraggi e vede che il «caporale» che ha sostituito Sachir Asan esce in strada spingendo tre di quei disgraziati, caricati delle loro povere cose. E sgridandoli e minacciandoli li conduce fino a un altro appartamento in una strada parallela, dove evidentemente la banda nasconde altri mendicanti.

Insomma, anche dopo la denuncia di Aurica e Iaser quasi nulla è cambiato. A Milano storpi veri e finti continuano a vivere come fantasmi, ignorati dal mondo reale, raramente allontanati con una moneta quando si presentano, molesti, al finestrino dell’auto. I vigili urbani ne hanno già censiti oltre 300, ma probabilmente la cifra più corretta è il doppio. E' un esercito di mendicanti e di lavavetri che ogni giorni esce dai ricoveri di fortuna per riversarsi agli incroci, nella metropolitana o nelle vie del centro. Sporchi, malvestiti, menomati, avanzano incerti tra le auto in sosta come gli zombie di un film di Frank Romero. Ma la realtà non è quella che appare. Ognuno di loro riesce a guadagnare fino a 150 euro al giorno, sono tutti sfruttati da un racket criminale e molti fingono di essere handicappati per essere più convincenti nella gara della pietà per vincere qualche spicciolo in più.

Basta adocchiarne uno, seguirlo fino alla mensa dei poveri di corso Concordia o di viale Ortles, per notare che, nei momenti di relax, maneggiano la stampella come un ombrello in un giorno di sole. O seguirli quando escono dal covo in zona Niguarda per andare al lavoro e corrono dietro al tram. O infine osservarli, a metà pomeriggio, ormai cotti dalla stanchezza e dall'alcol che trangugiano per tirare avanti e non sentire i dolori dell'anima e del corpo, mentre si riposano e scherzano tra loro sulle panchine di piazzale Susa, con bastoni e stampelle appoggiate alla siepe. Pochi minuti di pausa, al termine dei quali la comitiva si disperde verso gli incroci a ruoli scambiati: chi aveva la stampella ora sgambetta veloce, mentre chi pareva sano si aggrappa alla stampella del compagno, visibilmente troppo corta per essere veramente d'aiuto. Orari, postazioni, bugie da raccontare e trucchi per sembrare storpi sono dettati dagli emissari dell’organizzazione che, dalla Romania, ogni mese porta nuovi derelitti a Milano. Un traffico di esseri umani che si regge sul terrore delle vittime, che pochissime volte avevano testimoniato contro i loro aguzzini.

Aurica invece, con la polizia urbana ha parlato a lungo. Del resto, con quel suo camminare sbilenco ha sofferto anche troppo. Fin da ragazza si è dimostrata un ottimo «investimento» per uomini senza scrupoli: già a 17 anni era stata data in sposa a un vecchio che, dopo averla messa incinta, l'ha mandata a mendicare per lui. Poi, l'estate scorsa, il marito l'ha venduta per duemila euro a un'organizzazione di connazionali che opera in Italia.

Oggi ha fatto mettere a verbale che Sachir Asan l'ha comprata prima dell'estate, e poi l'ha portata a Milano, dove le ha sequestrato i documenti e l’ha costretta a mendicare per lui ai semafori, soprattutto quelli davanti al cimitero Monumentale, snodo importante del traffico milanese. Ogni tanto, quando si ricordava o aveva voglia, l’uomo le portava un panino da sgranocchiare sul marciapiede, durante la pausa di qualche minuto, a pochi metri dalle tombe dei milanesi illustri. Poi, a sera, la ragazza tornava a casa e doveva consegnare a Sachir tutto il denaro raccolto. Ovviamente non mancavano le botte, date generosamente ogni volta che Aurica portava a casa pochi soldi o chiedeva di poter tornare in patria, anche solo pochi giorni, per rivedere il figlio.

Nel suo mestiere però Aurica era brava: i suoi capelli biondo sporco e i suoi occhi chiari, oltre alla gamba malata, convincevano molti automobilisti ad allungarle qualche moneta. Insomma, Aurica ha portato molti soldi al capo, fino a 150 euro al giorno. Tanto da guadagnarsi la restituzione dei documenti e, la scorsa estate, addirittura tre giorni di ferie da passare a Rimini con l’amato Asan. Al ritorno però i due sono precipitati di nuovo nell'incubo dello sfruttamento. Lo stesso in cui vivono i romeni che sono stati trovati nell'appartamento di via Candiani e portati al comando di zona dei vigili per essere interrogati. Tutti hanno raccontato del loro sfruttatore, che era andato personalmente in Romania a convincerli a traslocare in Italia con la promessa di un lavoro «dignitoso».

Sachir provvedeva ai documenti per tutti, al trasporto, all'alloggio. Ma una volta a Milano il suo atteggiamento cambiava. Li portava ai semafori, dove altri connazionali stavano già lavorando. Quindi insegnava i trucchi per fingere di zoppiccare e forniva le stampelle, vero attrezzo del mestiere. Lo sfruttatore suggeriva persino le bugie su inesistenti figli malati per impietosire gli automobilisti. Chi protestava veniva picchiato, ferito. E le minacce di morte per chi non obbediva arrivavano fino in Romania, dove il clan può contare su complici in grado di punire le famiglie di origine.

Questa, oggi, è anche la paura di Iasar, che imprudentemente, subito dopo la denuncia, aveva rifiutato di rifugiarsi in una comunità. Una leggerezza che ha permesso di rintracciarlo, non solo al cronista di Panorama, ma anche a un complice di Sachir, che l'ha brutalmente invitato a ritrattare ogni accusa. «Io non ho paura per me» dice adesso Iasar: «Se tu ti volti, in un attimo scompaio e non mi ritrovi più; ho mille posti dove nascondermi e sono abituato a tutto. Ma temo per i miei familiari, che abitano vicino a chi mi ha costretto a mendicare in Italia».

Iasar però vuole andare avanti e porterà le sue accuse fino in tribunale, consapevole che solo da lui, e dalla povera fidanzata, dipende l'inchiesta. Già nel 2006 infatti, la Squadra mobile milanese era arrivata a un passo dallo sgominare la principale banda di sfruttatori di mendicanti e lavavetri. Ma poco prima del processo tutti i testimoni chiave dell'accusa si presentarono per ritrattare.

L'anno dopo, sempre a Milano, ci provarono anche i carabinieri che, grazie alla denuncia di due vittime e a un puntiglioso e estenuante lavoro di pedinamento, arrivarono a disegnare la mappa del racket. Individuando tutti i membri di un'organizzazione temibile, tanto in patria quanto in Italia, quello dei Saban, un’organizzazione romeno-turca il cui capofamiglia viene rispettosamente chiamato «nasu», che significa «padrino». Secondo i carabinieri tutti i membri della famiglia dei Saban, a Milano gestiscono centinaia di schiavi. L'organizzazione è piramidale, composta da gruppi di massimo venti mendicanti che ogni mese raccolgono 15 mila euro. Il denaro viene consegnato al capo-zona, un criminale di poco spessore, che a sua volta lavora in strada, come è il caso di Sachir Asan. Ogni capetto deve poi consegnare quasi tutto l'incasso a chi sta sopra di lui. E così fino al patriarca Pomac Saban, 60 anni, una vera primula rossa per gli investigatori.

Le indagini avevano ricostruito la tratta di essere umani, portati in Italia nascosti nei furgoni o scortati a bordo degli autobus che ogni giorno collegano Milano con la Romania. I racconti fatti ai carabinieri erano terribili, densi di violenza, miseria, sopraffazione e umiliazioni. I militari raccolsero tre fascicoli di materiale investigativo, ma il pm titolare dell'indagine, Ilda Boccassini, non ritenne vi fossero prove sufficienti e archiviò l'inchiesta. Nel frattempo i Saban e i loro sottoposti hanno continuato a fare arrivare a Milano decine d’invalidi veri e di poveracci, costretti a zoppicare per vivere. Lo conferma un sovrintendente di Polizia che da anni vigila su piazza Duomo: «Vediamo questi disgraziati stesi per terra tutto il giorno, conosciamo tutti i falsi invalidi, assistiamo al passaggio di denaro dalle loro mani alle tasche di chi li sfrutta, ma non possiamo fare granché. A volte li portiamo in questura per identificarli e toglierli dalla strada per qualche ora, ma il problema è lontanissimo dall'essere risolto».

Forse stavolta la testimonianza di Aurica e Iasar servirà a qualcosa. Per ora il loro presunto sfruttatore è in carcere. Ma gli investigatori sospettano sia appena la piccola ruota di un ingranaggio molto più grande. Chissà se adesso, in procura, ci sarà chi avrà voglia di fare camminare l’inchiesta.

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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