Giulietta e Romeo oggi parlano indiano
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Giulietta e Romeo oggi parlano indiano

In Veneto una coppia di giovanissimi ha tentato il suicidio, un'altra ha chiamato i carabinieri per essere salvata. Dietro, storie di caste e di tradizioni

Estenuato dai digiuni, bianco in volto per le nausee provocate da quel liquido che scorre nel sondino, Narish, 20 anni, sonnecchia mogio nella branda dell'ospedale. A risvegliarlo la vibrazione del suo cellulare.

Spalanca gli occhi neri: è arrivato un altro messaggino di Minha, 15 anni, indiana come lui, studentessa del liceo scientifico. I genitori di lei si opponevano al loro amore e così martedì 3 marzo, insieme, hanno cercato di uccidersi vicino a Camisano, nel Vicentino.

Prima si sono sdraiati sulle rotaie del treno, ma hanno avuto paura: più indolore mandare giù un bicchiere di idraulico liquido. Narish legge l'sms: accenna un sorriso, mentre si immagina Minha che lo esorta a tenere duro. Anche lei è all'ospedale.

Negli stessi giorni, a Chiampo, sempre in provincia di Vicenza, altri due giovani indiani, Rejan, 20 anni, e Monisha, 18, si ribellavano (i due nomi, come quelli dell'altra coppia, sono di fantasia).
Nata in una famiglia sikh, Monisha non era libera di frequentare un indù.

Perché si convincesse a sposare un uomo sconosciuto ma gradito al padre era stata rinchiusa in casa per più di una settimana, fino a quando, il 7 marzo, Rejan non ha bussato alla sua porta scortato dai carabinieri.

Due storie di provincia da una delle zone d'Italia più abitate da indiani che raccontano i turbamenti delle nuove generazioni immigrate. A scuola assaporano la libertà, quando rientrano a casa ritrovano l'India arretrata.

Molti dei 70 mila provenienti dal subcontinente hanno portato in Italia le loro regole: le caste non esistono più per legge, però condizionano di fatto l'integrazione. Il matrimonio, formalmente libero, nella realtà è quasi sempre combinato: pressoché impossibile legittimare un'unione tra giovani di diverso credo.

Le donne vanno a scuola, ma è bene che non camminino sole per strada. A molti va bene così, qualcuno si ribella. Pena: botte, divieti di uscire, la minaccia, per le ragazze, di essere rispedite in India. La storia di Minha e Narish, insieme da un anno e mezzo, è emblematica. Lei, cresciuta a Montebello in una famiglia indù, porta le sneaker, studia il latino e quando passa davanti a una chiesa si fa il segno della croce. Odia la cucina piccante, meglio la pasta. Narish, domiciliato a Zimella, in provincia di Verona, è sikh ma ha smesso di indossare il turbante: ora ha le mèches bionde, si è tagliato la barba e parla il dialetto veneto. Si amano, eppure i genitori di Minha non volevano che si frequentassero: per questo la madre la picchiava con il manico della scopa.

"Abbiamo provato a vivere da italiani e ci siamo fatti beccare" sospira il ragazzo, mentre si trascina per il corridoio dell'ospedale. Da quel giorno è stato un inferno. A fare la spia la sorellina di Minha: "Le indiane sono vigliacche, ti mettono sempre in mezzo per evitare le botte" sentenzia lei.

Mamma e papà Pal, titolari di un phone center a Montebello, non volevano che avesse un ragazzo e l'hanno punita fino a indurla a cercare la morte. Minha, per ora, è affidata a un'altra famiglia.

"Qualche volta ho pensato di resistere fino alla maggiore età, ma Narish stava male a sapermi bastonata per causa sua" racconta. Sabato 28 febbraio la forza per resistere le è mancata. Dopo botte e minacce madre e padre le requisiscono il cellulare.

"L'hanno costretta a telefonarmi per dirmi che le era caduto nell'acqua" ricorda Narish. "Dopo, di nascosto, mi ha richiamato: era disperata". Temeva di essere mandata in India: "Odia quel posto. Quando c'è stata, in agosto, ha vomitato ogni giorno perché non sopportava l'afa" racconta lui, mentre la bilancia dell'ospedale indica che ha perso 5 chili.

Sospira: il suo esofago ustionato, al momento, lo preoccupa meno della lontananza da Minha. "Ci sentivamo soli, sembrava che nessuno ci volesse aiutare" confessa la ragazzina, che oggi è contenta di poter contare su medici e uomini in divisa. "Abbiamo deciso insieme". Martedì 3 marzo lui non timbra il cartellino all'Eurolift e lei non si presenta in classe.

Con la Rover del fratello di Narish raggiungono i binari nei pressi della stazione di Lonigo: tenendosi per mano si distendono sulle rotaie in attesa del treno. Il fischio li spaventa e decidono di dirigersi al supermercato. "Sono pentita" bisbiglia Minha "l'ho fatto per fare del male ai miei. Ma non è cambiato nulla, sono venuti a trovarmi solo per farmi una predica".

Interpellato al telefono, Pal, padre della ragazza, nega ogni maltrattamento e si mostra fiducioso di riaverla presto a casa. Del ragazzo di sua figlia il padre dice di non sapere niente. "Se continuano a negare tutto, nessuno mi crederà mai. Non voglio tornare in quell'inferno" singhiozza Minha.

"Per fortuna le storie d'amore tra indiani non sono tutte così sofferte" commenta Anilkumar Dave, 35 anni, manager ad Alessandria.

Poliglotta, appartenente alla casta dei bramini (la più alta), spiega che ancora oggi sono le famiglie a consigliare ai figli chi sposare. "E' solo un suggerimento. Attraverso i bureau de marriage e internet genitori e zii si danno da fare fino a quando non trovano il modo di presentarti la loro scelta. A una certa età, i giovani indiani migrano verso l'Asia per conoscere le loro mogli".

La sua l'ha incontrata così, durante una visita nel suo paese d'origine: "Avevo fatto sapere che non ero pronto per certe sorprese. Ma hanno fatto bene: mi è piaciuta fin da subito". Anche la moglie è bramina: "Benché siano fuori legge, le caste contano ancora". Lo conferma Amita, operaia di Arzignano, nel Vicentino. Appartenente agli sharma, è stata lei a far sposare il suo primogenito di 25 anni.

"Stare con una persona troppo diversa può significare passare la vita in guerra". Se poi si sceglie qualcuno di un'altra religione, si compromette la reputazione della famiglia intera.

Così è stato per Monisha. Lei e Rejan vivevano nello stesso palazzo a Chiampo, ma non si salutavano. Lui, indù, operaio notturno alla concerie Tecnopress, tentava una timida corte a lei, sikh, donna minuta che studia da segretaria. "Un giorno, fuori da scuola, gliel'ho detto" racconta Rejan, senza smettere di accarezzarle le mani: "Mi piaci moltissimo". Ma lei è scappata: "Avevo paura" ride Monisha "non avevo mai parlato con un uomo".

Poi è nato l'amore. Dopo settimane di sms e sguardi, sei mesi fa, nel parcheggio vicino alla scuola di lei, il primo bacio e l'inizio della storia. Fino al giorno in cui suo fratello ha scoperto che Monisha aveva un cellulare. "Me l'aveva regalato Rejan".

Il fratello non ha gradito: "L'ha spaccato e mi ha riempito di schiaffi". Accadeva sabato 28 febbraio: lo stesso giorno in cui, a Montebello, a pochi chilometri, Minha, ragazza a lei sconosciuta, stava vivendo lo stesso dramma.

Da quella scenata Monisha non è più potuta uscire di casa. "Nemmeno sulla terrazza". Non doveva più vedere Rejan, era promessa a un uomo sikh come lei. "Ma gli dei non sono tutti uguali?" chiede Rejan.

"Non resistevo senza avere sue notizie" prosegue il ragazzo. "Così ho chiamato i carabinieri". Dal 7 marzo, dopo aver denunciato i genitori per sequestro di persona e violenza privata, Monisha vive con Rejan. Ripudiata, della sua famiglia non vuole sapere più niente. "Sono stati coraggiosi. Hanno fatto bene" commenta Minha quando apprende di quella storia. "Non è giusto accettare il ragazzo che ti impongono i genitori. Basta sceglierne bene uno. Io ho scelto Narish e starò con lui per tutta la vita".

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Lucia Scajola

Nata e cresciuta a Imperia, formata tra Milano, Parigi e Londra, lavoro a Panorama dal 2004, dove ho scritto di cronaca, politica e costume, prima di passare al desk. Oggi sono caposervizio della sezione Link del settimanale. Secchiona, curiosa e riservata, sono sempre stata attratta dai retroscena: amo togliere le maschere alle persone e alle cose.

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