I limiti della "dolce morte"
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I limiti della "dolce morte"

La vita di Alessandra, depressa, finita in un clinica Svizzera riapre il dibattito sulla eutanasia

Quando Dj Fabo fu accompagnato in Svizzera per ottenere la morte, molti pensarono che la scelta non fosse criticabile, ritenendo che vivere su un lettino senza potersi muovere per il resto dei propri giorni non fosse vita o per lo meno non una vita sopportabile per chi, prima dell’incidente stradale, era abituato a ballare e divertirsi. La fine di Dj Fabo, e il procedimento giudiziario che seguì contro Marco Cappato, il radicale che lo accompagnò nell’ultimo viaggio, aiutandolo a raggiungere in Svizzera la clinica dell’eutanasia, rilanciarono dunque il tema del fine vita, di come cioè garantire la morte a chi ritenga la vita insopportabile. È giusto obbligare una persona a rimanere in vita quando non può più svolgere gran parte delle funzioni vitali?

La storia che Antonio Rossitto racconta nelle pagine interne però squarcia il velo su un’eutanasia molto diversa da quella di Dj Fabo, perché quando si consente di somministrare la morte, cioè di rendere legale l’eutanasia, si deve sapere che non sempre è chiaro il confine di chi ne abbia diritto.

Alessandra Giordano non era un malato terminale e nemmeno era ridotta dalla malattia su un letto d’ospedale, impedita a muoversi, mangiare, vedere, parlare o cantare. La sua grande malattia, dicono i parenti, era la depressione, che la consumava da dentro e le impediva di vivere. Certo, ci sono persone depresse che giungono alla decisione di uccidersi. Anzi, il suicidio spesso deriva dalla depressione, cioè da una malattia distrugge la voglia di andare avanti. Ma lei non si è uccisa, si è fatta uccidere. E lo ha fatto ricorrendo a quella che con un eufemismo chiamano la dolce morte, cioè facendosi avvelenare in una casetta della clinica svizzera in cui è andato a morire anche Dj Fabo.

I parenti non si danno pace, perché pensano che lei potesse essere aiutata e invece è stata condannata. Non si dà pace neppure la Procura di Catania, che ha aperto un’indagine per istigazione al suicidio, convinta che le mail inviate dalla clinica l’abbiano indotta al passo senza ritorno. I medici dicono che sì, poteva essere aiutata, ma non a morire. Sullo sfondo poi si intravedono i soldi, ossia il patrimonio di lei, che guarda caso dopo la morte è stato lasciato alla clinica svizzera, donato a chi l’ha aiutata ad andarsene.

Il caso è certamente particolare, ma abbiamo scelto di raccontarlo in copertina per spiegare che l’eutanasia non è una scelta così logica come appare a prima vista, né è una legge così semplice da fare come a volte raccontano editorialisti e politici. Ammesso e non concesso che debba essere lo Stato a regolare i confini di chi sceglie di morire, dove si pongono questi confini? Chi stabilisce in base a quale malattia si ha diritto a ottenere la morte di Stato? Per tutte o solo per qualcuno? Il suicidio assistito lo può chiedere chiunque o solo chi sia in condizioni particolari, magari in stato vegetativo?

Le domande non sono campate per aria, perché quando si apre la porta all’eutanasia, cioè alla morte passata dalla mutua così come una medicina che si chieda al dottore di prescrivere, poi bisogna fare i conti anche con storie come quella che vi abbiamo raccontato. C’è chi si convince che la propria malattia non sia curabile, mentre magari lo è, oppure è sopportabile e si può convivere con essa. C’è chi non vuole affrontare il percorso di una patologia che inevitabilmente porta alla fine e dunque pretende di affrettarla. Cosa faremo? Assicureremo a chiunque ne faccia richiesta l’assistenza gratuita per dire addio alla vita? Il suicidio di Stato, che qualcuno vorrebbe introdurre nel nostro ordinamento, sarà erogato in un centro di assistenza della Asl, come il metadone, oppure all’interno degli ospedali ci sarà un reparto apposito, magari non troppo distante dalla pediatria?

Io non so dare risposte, ma quando si parla con troppa facilità di eutanasia, di diritto a dire addio alla vita con l’assistenza dello Stato, forse ci si dimentica di ciò che questo implichi. I casi come quello della donna di Catania a cui abbiamo dedicato l’inchiesta ne sono la testimonianza. 

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Maurizio Belpietro