Caso Yara: il paradosso del giudice 'perito dei periti'
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Caso Yara: il paradosso del giudice 'perito dei periti'

Ecco con quale criterio il giudice valuta le prove scientifiche e le perizie degli esperti durante i processi. E molti omicidi rimangono senza un colpevole

Processi da rifare. Sentenze contrastanti tra il primo e il secondo grado di giudizio. O ribaltate completamente in Cassazione. Sempre più spesso, nonostante prove apparentemente inconfutabili, molti casi di omicidio rimangono senza un colpevole. Perché?  La presenza della cosiddetta “prova scientifica”, sulla quale fior fior di esperti esprimono attraverso perizie più o meno convincenti, giudizi altrettanto scientifici, alla fine non riescono ad essere determinati e vengono messe costantemente in discussione. Dunque, la “scienza” che tante volte ha risolto casi impossibili, in molti altri sembra non essere poi così di aiuto nella risoluzione di questi casi. Anzi.  

Avvocato Nicodemo Gentile, la prova scientifica può essere messa in discussione in sede processuale. Quando accade e perché?

Partendo dal dato, ormai unanimamente affermato dagli addetti ai lavori, che bisogna sottrarsi ad una sorta di "mistica" della prova scientifica, alla convinzione cioè che essa, in quanto altamente tecnologica, abbia più valore di altre, la stessa, può essere messa in discussione ogni volta, a partire già dalla fase delle indagini preliminari, che  conduce a risultati non apprezzabili in termini di certezza o di qualificata probabilità.
A titolo esemplicativo, sarà meno contestabile , avendo sicuramente maggiore forza probatoria nell'ambito di una vicenda giudiziaria, l'individuazione dell'ora della morte della vittima sulla base della cd. triade tanatocronologica (temperatura cadaverica, ipostasi, rigidità cadaverica), anziché, come spesso avviene, sulla base del solo contenuto gastrico,  che viene definito dagli stessi specialisti "la tomba della medicina legale", in quanto passibile di errore, anche grossolano.
Non mancano però vicende nelle quali, per intere udienze, si è discusso dell'epoca della morte individuata solo sulla base del contenuto gastrico e dei relativi tempi di digestione.

Quando il Dna considerato da sempre la prova "regina" può essere considerato 'incerto' e in questo caso come si comporta il giudice?
Il DNA per essere "prova regina" deve superare alcune prove di resistenza; non basta, in effetti, rinvenire tracce biologiche di un soggetto sulla scena criminis per pervenire a conclusioni di responsabilità. Tra gli aspetti da valutare, è sicuramente  fondamentale, innanzi tutto, capire se nelle fasi di repertazione, prelievo e conservazione della traccia si siano seguiti le raccomandazioni, i protocolli e le direttive internazionali il cui rispetto è prescritto dalla comunità scientifica. E' altresì necessario valutare la quantità di DNA presente nel campione: in alcuni casi, infatti la quantità è talmente esigua da rendere notevolmente difficoltoso l'ottenimento di un profilo completo. Per questi campioni, definiti "Low copy number", non sempre il lavoro avviene in sicurezza  e i risultati ottenuti non sempre sono affidabili (il caso di Perugia nell'omicidio di Meredith Kercher ne è un esempio lampante ed emblematico). Occorre inoltre capire se la traccia sia degradata o meno, soprattutto quando si è dinnanzi a dei profili misti, che rendono ulteriormente difficoltosa l'indagine genetica.
Qualora l'indagine sul DNA presenti alcune delle predette criticità si sarebbe in presenza di un semplice indizio, da valutare unitamente alle altre emergenze, anche di altra natura (fonti testimoniali, intercettazioni, documenti ecc) e non di fronte ad una "prova regina".

Nei vari processi da Meredith a Parolisi, da Chiara Poggi a Cogne si è assistito ad un girotondo di perizie ognuna il contrario dell'altra. E il giudice deve decidere. Quale criterio viene usato?
Ormai il mito del "giudice perito dei periti" sta tramontando tanto che viene considerato da alcuni studiosi un vero e proprio paradosso, posto che non si comprende perché il Giudice, dapprima "ignorante" in certi ambiti, debba ricorrere al perito per colmare le sue lacune, salvo poi, ottenuto il parere dell'esperto, avere la possibilità di  valutarlo in autonomia, anche talvolta, disattendendo le sue conclusioni.
Parallelamente si fa sempre più strada il principio del Giudice "gatekeeper", ovvero custode del metodo scientifico impiegato concretamente nell'indagine.
Ciò implica che il Giudice dovrà dare ingresso nel processo soltanto a quei risultati che siano conformi ai cd. "Daubert standards", ripresi ed ampliati anche dalla sentenza della Cassazione c.d. "Cozzini": tra questi si segnala rigore ed oggettività della ricerca, affidabilità ed indipendenza dell'esperto, conoscenza del tasso di errore del lavoro, riconoscimento dell'elaborato da parte della comunità scientifica e le discussioni che si sono formate sullo stesso, verificabilità e falsificabilità dei risultati ecc. Solo questo dovrebbe essere il criterio utilizzato nelle aule di Giustizia. Non si deve comunque dimenticare che molte condanne, anche pesanti, riposano, purtroppo, su criteri meno scientifici.

In questi ultimi anni si parla di "scienza buona" e "scienza spazzatura". Che cosa significa?  Come è possibile che possa esistere una scienza "spazzatura"?
E' "spazzatura" tutto ciò che viene gabellato per scientifico, ma che non risponde ai rigorosi  criteri dettati dalla comunità scientifica e accolti dalla migliore e più moderna giurisprudenza. La "junk science" è estremamente pericolosa, perché può essere fonte di alterazione dell'iter ricostruttivo dei fatti, dando ingresso nel processo a strumenti pseudo-scientifici. Ulteriore distinzione, nonché ulteriore pericolo per l'accertamento dei fatti consta nella sperimentazione, dalla quale non si possono ricavare risultati apprezzabili in termini di certezza, ma tutt'al più meramente orientativi per il Giudice. Infatti essa opera sempre su dati approssimativi, in quanto imprecisa e non certa riproduzione di quanto avvenuto nella realtà.

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Nadia Francalacci