Di Napolitano, di Berlusconi e del doppiopesismo italiano
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Di Napolitano, di Berlusconi e del doppiopesismo italiano

Perché sarebbe più grave intaccare le prerogative del presidente che non delegittimare il prestigio  di un capo di governo su temi peraltro meno cruciali come le sue feste private?

È la tolleranza, se non addirittura la complicità, verso una magistratura che spesso e volentieri fa politica e usa le inchieste per sostenere teoremi o per abbattere avversari, ad aver prodotto in questi giorni il corto circuito tra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (che è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura), e la Procura di Palermo. Ossia la Procura che nell’immaginario pubblico è la punta di diamante della lotta dello Stato contro la criminalità (organizzata).

La vicenda è nota. Ci sarebbero un paio di intercettazioni in mano ai Pm, in cui il capo dello Stato parla con l’ex ministro dell’Interno ed ex vice-presidente del Csm, Nicola Mancino, che cercava la protezione del Colle da quello che considerava un accanimento giudiziario nell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Siamo nel cuore di una vicenda che più delicata non si può immaginare. C’è di mezzo la mafia, c’è il trauma non ancora elaborato del doppio assassinio di Falcone e Borsellino e della strage delle scorte di Capaci e Via D’Amelio. C’è il Quirinale, la più alta carica istituzionale. C’è una Procura, quella di Palermo, in prima linea. E c’è l’antica querelle sulle intercettazioni. C’è un conflitto d’attribuzione, che il Presidente Napolitano ha deciso con “sofferta convinzione” di aprire davanti alla Corte Costituzionale (non davanti al Csm) circa la legittimità della conservazione di quelle intercettazioni. C’è tutta una cortina di fumo di valutazioni giuridiche (e politiche) dietro la scelta, rischiosa, estrema, di sottomettere il Colle al giudizio della Consulta in uno scontro plateale con i magistrati di Palermo. La spiegazione che il Quirinale dà di questa scelta è che si tratta di tutelare non la persona del Presidente, ma la sua carica, consegnando ai successori, chiunque siano, una carica intatta. Integra nelle sue prerogative.

Però ci chiediamo: perché sarebbe più grave intaccare le prerogative del capo dello Stato, l’intangibilità delle sue conversazioni, il prestigio del suo ruolo (diamo per scontato che le telefonate non abbiano, come hanno pur dichiarato i magistrati, rilevanza penale, ma siamo anche certi che non possano in alcun modo essere compromettenti per il capo dello Stato che avrà sicuramente risposto all’ex ministro Martino come si deve), più grave dicevamo che non delegittimare, intaccare o incrinare il prestigio di un capo di governo, com’è stato più volte con Silvio Berlusconi su temi peraltro meno cruciali: feste private, non la mafia.

Finalmente questo Paese si accorge che ci sono due pesi e due misure, che il linguaggio muta se i protagonisti di una delegittimazione ai limiti della legalità si chiamano Napolitano o Berlusconi, che l’alta esposizione di chi in Italia fa politica (prima Berlusconi, adesso il capo dello Stato con la sua azione di kingmaker e timoniere della nave Italia) innesca la pronta e fin troppo tempestiva attenzione degli “organi giudiziari”, e di una stampa che del giustizialismo ha fatto la sua linea editoriale in barba alle leggi (anche la pubblicazione delle intercettazioni, per quanto giornalisticamente ineccepibile, presuppone spesso reati che però non vengono perseguiti sul versante di chi quelle notizie propaga).

Non sappiamo se rattristarci per la deriva delle istituzioni (Quirinale e magistratura in conflitto) o se rallegrarci per lo smascheramento di una ipocrisia che troppo a lungo ha tenuto in ostaggio la politica, pur con tutti gli errori, le colpe ed eventualmente i reati che hanno inquinato la vita politica e screditato una classe dirigente che non sapremmo dire se più disonesta o più incapace. E ci chiediamo, ancora una volta: possibile che in questo paese, ora che anche il capo dello Stato è dovuto passare alla carta bollata, resista solo una casta di intoccabili, la magistratura, che dovrebbe per di più essere quella che tutela i nostri diritti?  

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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