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Una croce sopra

Il crocifisso è il simbolo più contestato ma dal significato fondamentale: testimonianza della nostra civiltà che lega l'umano e l'universale

Non c’è giorno che un vescovo, un prete o un opinionista non deplori l’esibizione del crocifisso in politica, nei luoghi pubblici o in tv. Il bacio di Salvini al crocifisso e al rosario, la croce al collo della giornalista Marina Nalesso nella conduzione dei tg, i crocifissi rimossi o rimessi nelle aule pubbliche: arriva la scomunica ai crociferi, con espressioni feroci e poco cristiane.

Eppure dai tempi di Costantino e della croce come simbolo di vittoria, In hoc signo vinces, fino allo scudo crociato usato dalla Democrazia cristiana pure sulle schede elettorali, sono svariati secoli che la croce è usata in ambito non religioso ma politico, militare e civile. Senza suscitare scandalo, anzi godendo spesso dell’appoggio della Chiesa.

È facile poi notare che il ribrezzo del clero e dei nuovi chierici atei è verso chi ostenta il crocifisso non riguarda, invece, chi offende, calpesta, ridicolizza, con parole, atti e leggi, la fede cristiana e i suoi ambiti primari: il diritto alla vita, la nascita e la morte, l’aborto e la blasfemia, la parodia del cristianesimo e la scristianizzazione. O chi ostenta altri simboli di fede o di appartenenza.

Lo scandalo in nome di Dio del crocifisso esibito, ritenuta una profanazione superstiziosa e strumentale della fede, coincide curiosamente con lo scandalo del crocifisso nel nome del laicismo ateo, che non tollera simboli religiosi fuori dalle chiese e dall’intimità, come se i segni visibili della religione fossero il nuovo atto osceno in luogo pubblico. Si può esibire la propria sessualità ma guai a esprimere la propria religione, concordano atei e sacerdoti progressisti. C’è chi arriva persino a ipotizzare il reato di «crocifisso ostentato»...

Ma non è della rabbia schiumante dei chierici che vorrei parlarvi, e nemmeno della «cristofobia» diffusa, ma di qualcosa di più profondo. Se eliminiamo dalla vita pubblica i simboli che derivano dalla nostra tradizione civile e religiosa, quali sono i simboli viventi e visibili della nostra civiltà, da cosa siamo collegati, qual è il linguaggio che ci unisce e ci distingue? Se togli la religione e la storia che a essa ha attinto, se togli la tradizione cristiana e umanistica l’unica universalità che ci resta è nell’incrocio tra la tecnologia e l’economia. Uniti dal web e dal mercato globale, e poi basta. L’Europa naufraga in questo vuoto pneumatico di simboli e lessico comune. Se rimuovi i segni della tradizione da cui proveniamo, che sono inevitabilmente legati alla civiltà cristiana e alla civiltà greco-romana, non abbiamo alcun orizzonte comune fuori dall’universo tecnico e consumistico.

Scavando più a fondo, c’è un nodo cruciale che va ben oltre il gesto di Salvini e la stizza dei suoi detrattori. Che significato può avere oggi il crocifisso, qual è il suo messaggio più profondo? Ci sono due modi di intenderlo che convivono da secoli e sono la linea di confine tra fede e civiltà cristiana, tra cristianesimo e cattolicesimo. Per i primi il crocifisso è simbolo vittimario, per i secondi è simbolo identitario. Mi spiego. Per i primi, il significato proprio del crocifisso è di essere sempre e comunque dalla parte delle vittime, i deboli, i malati, i sofferenti, gli schiavi, i poveri, gli oppressi, i discriminati. Cristo muore in croce per loro, per salvare tutte le vittime passate, presenti e future da ogni violenza e persecuzione. È questa, secondo René Girard, l’eredità che ha lasciato il cristianesimo al mondo d’oggi, «la preoccupazione per le vittime» e con essa il ripudio di ogni guerra, violenza, persecuzione in virtù delle quali la vittima matura un diritto assoluto.

Al cristianesimo che considera la croce come il supremo simbolo delle vittime, si oppone la tradizione cattolica, la civiltà cristiana, che riconosce nella croce il supremo simbolo identitario dell’Europa e dell’Occidente. Cioè il segno di riconoscimento di un mondo, di un’appartenenza comunitaria, di una fede trasmessa di padre in figlio.

La prima è la religione del Figlio, si cura delle vittime e degli ultimi ed è protesa verso la santità. La seconda è la religione del Padre, si cura di trasmettere, educare, proteggere ed è protesa verso il sacro. È come se la prima visione della croce si fermasse al suo asse orizzontale che allarga le braccia al mondo; e la seconda si concentrasse sull’asse verticale, piantato in terra ma rivolto verso l’alto, con gli occhi al cielo.

Le due visioni sono esposte a degenerazioni simmetriche: la prima rischia di risolversi in una tensione umanitaria e terrena, di puro soccorso, in cui sparisce Dio, il senso del Mistero, la liturgia sacra, l’immortalità dell’anima e la fede ultraterrena. La seconda rischia di risolversi nell’osservanza formale di alcuni riti e di alcune regole, nella difesa della civiltà in pericolo e dei suoi assetti, fino a perdere il senso religioso e la carità.

Nei fondali della nostra vita e della nostra cultura questa divergenza originaria si ripete, seppure nel contesto profano e irreligioso di oggi. La Chiesa di Bergoglio è schierata dalla parte delle vittime, salvo alcune vistose incoerenze: per esempio trascura le vittime delle persecuzioni anticristiane, i martiri, curandosi delle vittime più remote e non cristiane. O per esempio, quando nel nome del perdonismo, è più vicina a detenuti e criminali, piuttosto che alle loro vittime. E il Pontefice non sa e non vuole far da ponte tra le due visioni.

È nell’aria uno scisma, ma ancora non sappiamo se sarà interno alla Chiesa e alla Cristianità o se spaccherà l’intera società. Lo scandalo della Croce.

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Marcello Veneziani