Dal Covid-19 ad Ebola, tutti gli errori dell'Oms
(Ansa, Epa)
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Dal Covid-19 ad Ebola, tutti gli errori dell'Oms

L'epidemia di Coronavirus ha mostrato tutti i limiti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, non nuova ad errori e sottovalutazioni

La crisi del coronavirus ha gettato più di un'ombra sull'Organizzazione mondiale della sanità. Le polemiche si susseguono, insieme alle accuse di aver colpevolmente tardato nella gestione dell'epidemia. Ritardi che, da più parti, si attribuiscono ora a negligenza ora ad agganci politici opachi con la Cina. Fondata nel 1948, l'Oms è un'agenzia specializzata delle Nazioni Unite, che si occupa di promuovere e tutelare la salute pubblica a livello internazionale. I 194 Stati membri inviano le proprie delegazioni all'organo decisionale dell'ente, l'annuale World Health Assembly, che – tra i vari compiti – si occupa di eleggere un direttore generale ogni cinque anni. E proprio l'attuale direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha respinto mercoledì scorso le accuse di ritardo nella gestione del coronavirus, sostenendo di aver dichiarato l'emergenza "al momento giusto".

Sennonché, a ben vedere, non sembra che le cose siano andate esattamente così. Non dimentichiamo infatti che Ghebreyesus abbia proclamato l'emergenza sanitaria globale soltanto il 30 gennaio: un po' tardi, soprattutto alla luce delle informazioni che già all'epoca erano disponibili. Sotto questo aspetto, va rilevato che il nuovo virus in Cina fosse noto almeno dal mese di dicembre e – secondo alcuni – addirittura da novembre. A metà gennaio era inoltre chiaro che la situazione stesse velocemente peggiorando. Il 24 del mese si contavano in Cina, secondo i dati ufficiali, circa 1.000 contagi e una trentina di morti, mentre alcuni casi iniziavano a registrarsi anche al di fuori della Repubblica Popolare (come, per esempio, in Francia). In tutto questo, anziché prendere provvedimenti energici, Ghebreyesus ha temporeggiato, pur non rinunciando a elogiare il presidente cinese, Xi Jinping, per la sua gestione della crisi. Come sottolineato da un duro editoriale del Wall Street Journal a inizio aprile, se l'Oms si fosse decisa a suonare l'allarme una settimana prima, la comunità internazionale avrebbe guadagnato del tempo prezioso. Già il 25 gennaio, l'ex portavoce dell'Osce e dell'Unicef, Michael Bociurkiw, aveva d'altronde definito "sconcertante" il fatto che l'organizzazione guidata da Ghebreyesus non avesse ancora dichiarato l'emergenza globale.

D'altronde, non si tratta della prima volta che l'agenzia incappa in errori di questo tipo. Nell'aprile del 2015, furono gli stessi vertici dell'Oms ad ammettere i propri colpevoli ritardi nella gestione della crisi sanitaria dell'ebola in Guinea, Liberia e Sierra Leone l'anno prima. Ashish Jha, direttore dell'Harvard Global Health Institute parlò non a caso, in quel frangente, di "fallimento eclatante" da parte dell'organizzazione. Controverso risulta poi anche il ruolo dell'Oms nella gestione dell'influenza H1N1 tra il 2009 e il 2010, quando l'agenzia venne tacciata da più parti di aver seminato indebitamente allarmismo, portando all'accumulo di vaccini e – come riportò Reuters – determinando accuse di sue connessioni opache con alcune grandi ditte farmaceutiche. Nell'aprile del 2010, uno dei principali esperti di malattie influenzali dell'Oms, Keiji Fukuda, ammise delle carenze in come era stata affrontata la situazione. Il problema, sotto questo aspetto, è quindi innanzitutto di natura strutturale. Come notava il Guardian lo scorso 10 aprile, l'Oms detiene di per sé un'autorità molto limitata, che risulta tendenzialmente in balìa degli Stati membri più forti o più abili nel perseguire il proprio interesse. Non a caso, più che a un leader o a un generale, la testata britannica ha paragonato l'organizzazione a un "allenatore sottopagato" che può solo blandire (o supplicare) i giocatori della propria squadra, affinché lavorino efficacemente d'intesa. Del resto, buona parte del budget dell'Oms è costituito da donazioni volontarie. Tutto questo, senza poi trascurare la progressiva crisi in cui, da alcuni anni a questa parte, stanno piombando le grandi organizzazioni sovranazionali, che risultano sempre più subordinate a interessi particolari.

Ed è qui che veniamo alle strette connessioni che le alte sfere dell'Oms intrattengono oggi con la Repubblica Popolare cinese. Strette connessioni che è oggettivamente difficile negare. Vediamo nel dettaglio. In primo luogo, Taiwan ha dichiarato di aver avvertito l'organizzazione già a fine dicembre sulla possibilità che il nuovo virus potesse essere trasmesso da uomo a uomo: un avvertimento che tuttavia l'Oms avrebbe ignorato e – stando a quanto riportato dal Financial Times – evitato di far presente ad altri Paesi. Ricordiamo che Taiwan è esclusa dall'Oms proprio a causa dell'opposizione di Pechino, che non vuole minimamente derogare alla "politica dell'una sola Cina". Addirittura, dal 2018, a Taipei è stato vietato di partecipare alla World Health Assembly con lo "status di osservatore": status che l'isola deteneva da una decina di anni. In secondo luogo, non dimentichiamo che, pur avendo bollato come xenofobo il fatto che Donald Trump avesse definito l'attuale coronavirus un "virus cinese", l'Oms non abbia condannato egualmente Pechino, quando – nelle scorse settimane – ha cercato di scaricare la responsabilità del morbo su altri Paesi (tra cui l'Italia e gli Stati Uniti). In terzo luogo, non bisogna dimenticare la vicinanza dello stesso Ghebreyesus a Pechino. Nel 2017, costui è stato infatti eletto direttore generale, grazie al sostegno di un blocco di Paesi africani e asiatici (tra cui proprio la Cina). Senza poi trascurare che, nel governo etiope, ha ricoperto le cariche di ministro degli Esteri dal 2005 al 2012 e di ministro della Sanità dal 2012 al 2016: un lungo arco temporale, in cui l'Etiopia ha notevolmente rafforzato i propri legami economici e politici con la Repubblica Popolare. Sarà un caso, ma mentre l'attuale direttore generale ha finora sempre avuto parole di apprezzamento per Pechino, non altrettanto si può dire per quanto riguarda Taiwan, contro cui si è espresso molto duramente un paio di settimane fa. Infine, non sembra che la posizione accondiscendente dell'Oms verso la Repubblica Popolare sia cambiata, anche dopo che – lo scorso 15 aprile – l'Associated Press ha accusato Pechino – documenti alla mano – di aver atteso ben sei giorni (dal 14 al 20 gennaio) per ammettere la gravità dell'epidemia: sei giorni in cui, ha riferito l'agenzia di stampa americana, si sarebbero nel frattempo registrati fino a 3.000 contagi.

Alla luce di tutto questo, si comprende per quale ragione Trump abbia annunciato il blocco temporaneo dei finanziamenti americani all'Oms (una strada che, in Italia, è stata recentemente ventilata anche dalla Lega attraverso un'interrogazione parlamentare). Non dimentichiamo che gli Stati Uniti risultino il principale contributore dell'agenzia. Secondo i dati riportati dalla National Public Radio, per il budget 2018-2019 Washington ha versato all'organizzazione un totale di 893 milioni di dollari, mentre Pechino si è fermata a poco più di 76 milioni. Eppure, nonostante questa disparità in termini di finanziamento, la Cina è riuscita – nel corso degli ultimi anni – a svolgere, rispetto agli Stati Uniti, una più efficace attività di lobbying in seno all'agenzia. Il senso della decisione di Trump può quindi essere duplice. Il presidente americano vuole innanzitutto mettere l'Oms davanti alle sue responsabilità tecniche per il ritardo con cui ha gestito la crisi e, in secondo luogo, punta a intensificare il confronto geopolitico con Pechino. Tutto questo, secondo una linea che, alcuni mesi fa, abbiamo già parzialmente visto in atto in riferimento all'Organizzazione mondiale del commercio: non è del resto un mistero che Trump non abbia mai visto troppo di buon occhio le istituzioni sovranazionali, da lui sovente considerate o eccessivamente lente e farraginose o dei cavalli di Troia usati da potenze estere fondamentalmente ostili (a partire proprio dalla Cina). Alcuni sostengono che proprio questo tipo di approccio sarebbe alla base dell'attuale debolezza dell'Oms nell'agire in modo concreto e risoluto: sennonché – come abbiamo visto – la crisi dell'agenzia si è manifestata chiaramente già nel 2014 e – secondo qualcuno – addirittura nel 2010: ben prima che Trump divenisse presidente degli Stati Uniti. Bisognerà adesso vedere se la Casa Bianca sia intenzionata ad abbandonare l'organizzazione oppure se la sua mossa sia in realtà funzionale a metterla sotto pressione, in vista di riforme drastiche. Nonostante le polemiche, in questa sua battaglia il presidente ha comunque trovato il netto appoggio del Partito Repubblicano: non soltanto il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha confermato le critiche all'Oms, ma svariati deputati repubblicani hanno anche invocato le dimissioni di Ghebreyesus.



E' noto che, per la scelta di bloccare i finanziamenti, il presidente americano si sia attirato un numero incalcolabile di critiche: dai democratici a Bill Gates, dall'Onu alla Cina, dalla Russia all'Unione europea. Eppure, per dirimere queste polemiche e fare un po' di chiarezza, basterebbe forse limitarsi a rispondere a queste due semplici domande. E' vero o non è vero che l'Oms ha tardato nel dichiarare l'emergenza sanitaria globale? E' vero o non è vero che, all'interno dell'organizzazione, la Cina rivesta un peso politico tutt'altro che indifferente? Siccome – da quanto abbiamo visto – la risposta a entrambe le domande pare purtroppo positiva, non si capisce per quale ragione Trump debba far finta di nulla e continuare a foraggiare un'istituzione che ha oggettivamente mostrato negligenza, oltre a risultare opacamente accomodante verso Pechino. Insomma, non è detto che, in questa vicenda, il presidente americano abbia alla fine tutti i torti.

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Stefano Graziosi