Cosa ci insegna la sentenza sulla Diaz
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Cosa ci insegna la sentenza sulla Diaz

Chi ha sbagliato paghi, ma nessun rigurgito ora contro le forze dell'ordine

Se l’aspettavano, anche se è una sentenza che tramortisce. Se l’aspettavano sia quegli investigatori di prima linea ai quali è stata stroncata la carriera, sia i vertici del Viminale. La Corte di Cassazione, nel confermare le condanne d’appello per i reati più gravi relativi all’irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del luglio 2001, ha dato una svolta alla vita e al lavoro del prefetto Francesco Gratteri, capo della Direzione centrale anticrimine della polizia; di Gilberto Caldarozzi, capo del Servizio centrale operativo, e di Giovanni Luperi, già vicedirettore dell’Ucigos (l’antiterrorismo) e oggi capo di uno dei dipartimenti dell’Aisi, il servizio segreto interno.

Mentre le condanne che variano dai 3 anni e 8 mesi di Luperi ai 4 anni degli altri due investigatori eccellenti non avranno conseguenze pratiche per effetto dell’indulto, l’elemento più importante della sentenza è naturalmente la conferma dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, che significa carriera finita e decapitazione di alcuni dei più importanti uffici di investigazione.

Dei 25 poliziotti condannati in appello nel maggio 2010 beneficiano invece della prescrizione per il reato di lesioni quelli dei reparti mobili (la vecchia Celere) che entrarono materialmente nella Diaz. E il loro lavoro continuerà.

La sentenza lascia spazio a due ordini di commenti: nel merito della vicenda e più in generale sulla gestione dell’ordine pubblico dopo quel G8.

Che a Genova siano stati commessi errori e abusi è certo: l’irruzione alla Diaz fu un errore di per sé, prima ancora di come fu effettuata. Lo stesso Vincenzo Canterini, già capo del reparto mobile di Roma e uno dei condannati, fin dal comitato parlamentare d’inchiesta dell’agosto 2001 sostenne di essersi dichiarato contrario durante il vertice preparatorio, ma era in minoranza. Va ricordato che a Genova c’erano l’allora vicecapo della polizia Ansoino Andreassi, poi rimosso, e il capo della polizia di prevenzione Arnaldo La Barbera, morto l’anno successivo. La Barbera arrivò davanti alla scuola a irruzione in corso. I due non sono mai stati inquisiti.

La condanna per falso, invece, è a carico di Gratteri e Luperi che non firmarono nessun atto e che oggi, più di altri, si lamentano sottovoce.

Dopo Genova, però, cambiò totalmente l’approccio nella gestione dell’ordine pubblico, partendo dalla formazione del personale. Commentando la sentenza, il capo della polizia, Antonio Manganelli, ha infatti ribadito «l'impegno a proseguire nel costante miglioramento del percorso formativo relativo al complesso campo dell'ordine e della sicurezza pubblica». Oggi una situazione come quella di Genova verrebbe gestita in maniera radicalmente diversa. Il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, lo sottolinea in un’intervista al Corriere della Sera ricordando che negli incidenti di ottobre 2011 a Roma fu un carabiniere a rischiare di morire bruciato a San Giovanni. Anche se lì, aggiungiamo noi, ci furono altri tipi di carenze. Piuttosto, il ministro sostiene che così come non devono ripetersi situazioni come quelle della Diaz, neanche i poliziotti devono più essere «assaliti, picchiati, insultati per strada».

Ecco, il rischio della sentenza della Cassazione è proprio questo: un rigurgito contro le divise, contro l’ordine pubblico in genere, soprattutto in un momento di crisi economica che alimenta proteste di ogni tipo. Anche su questo, come è stato per la Diaz, non devono esserci sconti.

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Stefano Vespa