Covid: chi è preparato all'autunno caldo
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Covid: chi è preparato all'autunno caldo

Inchiesta sulla pandemia in Italia - QUARTA PUNTATA

  • Panorama ha condotto un'indagine approfondita per capire come mai la regione più ricca d'Italia è stata sopraffatta dal coronavirus. L'inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 12 maggio.
  • Quarta puntata: Il professor Andrea Crisanti, l'artefice del modello Veneto, spiega a Panorama i quattro ingredienti necessari per affrontare l'eventuale seconda ondata del coronavirus. Tenendo ben presente che è una battaglia che si vince sul territorio.

«Alcuni esperti parlano di seconda ondata, dobbiamo essere pronti». L'invito/auspicio è stato lanciato dal ministro della Salute Roberto Speranza, al termine del Consiglio dei ministri del 13 maggio. Già, ma siamo davvero pronti a una possibile seconda ondata della pandemia? I servizi sanitari delle Regioni sono preparati ad affrontare un eventuale nuovo picco in autunno?

Panorama ne ha parlato con il professor Andrea Crisanti dell'Università di Padova, riconosciuto dagli addetti ai lavori come il miglior virologo in circolazione. L'artefice del modello Veneto, colui che ha impedito che il virus dilagasse oltre i confini di Vo' Euganeo, è stato il primo a dire che la battaglia contro il Covid-19 si vince sul territorio e che «ogni malato in rianimazione è una sconfitta».

Ma, per vincere sul territorio, che cosa bisogna fare? «Il primo ingrediente è sapere quanti casi effettivamente ci sono» risponde Crisanti. «Mi creda: finché non si schioda questo non si faranno progressi». E come si fa a saperlo? «Un modo c'è. Al momento si computano solo i casi a cui viene fatto il tampone. Il risultato viene mandato al servizio territoriale, che lo manda alla Protezione civile, la quale fa il punto. Questo numero non dice nulla, glielo assicuro».

E invece, cosa occorrerebbe fare? «Bisognerebbe dire: Molto bene, ci sono casi a cui facciamo il tampone e quelli sono documentati microbiologicamente, però dobbiamo trovare un sistema per capire quanti sono gli altri. Ci sono tantissime persone che telefonano da casa e non vanno in ospedale che sono facilmente riconoscibili, sulla base dei sintomi. Prendiamo in considerazione anche quei casi: e se anche dovessimo sovrastimarli di un pochetto, non sarebbe la fine del mondo». Senza fare il tampone? «Senza fare il tampone: comunque avremmo un'idea di quanti sono».

Quindi il primo ingrediente è sapere quanti casi ci sono. E se non si riesce a fare tutti i tamponi, si faccia una stima di massima con una valutazione clinica. «Sì, perché il numero di casi è la variabile più importante che influenza il rischio. Non ci sono altre cose. Tutto il resto sono stupidaggini, se non si sa quanti casi ci sono. Quando sento quelle cose inorridisco, mi creda, mi ribolle il sangue...»

Dopo aver rilevato i casi, si fa la geolocalizzazione, che è facilissima da attuare, si vede giorno per giorno come variano i contagi e si capisce immediatamente come avviene la trasmissione. Si va là e si cominciano a bloccare paesi, piccole città, isolati... E si fanno micro-zone rosse che durano magari tre-quattro giorni, dove si fanno i tamponi a tutti. È molto semplice. Si fa come abbiamo fatto a Vo' Euganeo, dove non ci sono stati più casi. Guardi, la ricetta ce l'abbiamo».

Commenta il dottor Andrea Mangiagalli, medico di base a Pioltello (Milano) e promotore del gruppo Medici in prima linea: «Una geolocalizzazione così puntuale esiste solo in Veneto, dove la mappa dei casi, estremamente dettagliata e puntiforme, viene alimentata in tempo reale. Qui in Lombardia, nel portale NCov abbiamo dei macro-aggregati, che al massimo ci dice quanti casi ci sono in un comune. E sicuramente non georeferenziati».

La strategia del professor Crisanti è molto particolareggiata. «Se per esempio in una piccola area di Milano cominciamo a vedere che i casi si concentrano tutti lì, è chiaro che dobbiamo intervenire lì, creando una micro zona rossa» spiega. «Il problema è che in questo momento non si sta facendo niente di tutto questo: la nostra povera Italia è lasciata da sola con mascherine e guanti».

Che però non bastano... «Certo che non bastano. È evidente che non bastano. Bisognerebbe creare un vero servizio epidemiologico territoriale che identifica tutti quanti i casi e fa la geolocalizzazione, che costantemente dà informazioni sulla formazione dei cluster, che guida la capacità di reazione che nel frattempo si è formata, con personale che va a fare i tamponi, che isola i casi, che li controlla... Così si fa. Questo significa vincere il Covid-19 sul territorio».

Eppure i servizi epidemiologici territoriali in teoria esisterebbero: sono gli Uffici di igiene. Il problema è che, in Lombardia, sono di fatto scomparsi... La «pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica» durante la pandemia è stata denunciata sia dalla Federazione Regionale degli Ordini dei Medici della Lombardia sia da cinque ex direttori dei Dipartimenti di Prevenzione di Bergamo, Milano e Lodi. «Vabbé, allora..» è lo sconsolato commento di Crisanti.

In Veneto e in Emilia-Romagna, invece, i Servizi di igiene e sanità pubblica sono stati in prima linea a coordinare gli interventi sul territorio contro la pandemia. «E come no? Consideri che in Veneto ci sono 12 laboratori di sanità pubblica eche in Lombardia ce ne sono tre». Dodici contro tre, e pensare che il Veneto ha la metà degli abitanti rispetto alla Lombardia. «Poi qui in Veneto c'è tutta la continuità territoriale, composta da servizio epidemiologico, medico di base, ospedale piccolo, ospedale grande: tutti integrati in una serie di percorsi di assistenza». Aggiunge il dottor Bruno Di Daniel, medico di base a Maserada sul Piave (Treviso): «Qui da noi c'è una buona collaborazione con l'ufficio di Igiene».

Anche in Emilia-Romagna la medicina territoriale è stata rafforzata. «A partire da fine 2017 l'Asl di Bologna ha investito più sulla medicina territoriale che sugli ospedali» ricorda il professor Pierluigi Viale, ordinario di Malattie infettive all'Università degli Studi di Bologna. Al centro della strategia emiliana ci sono le Case della salute, «un modello organizzativo che la Regione Emilia-Romagna sta realizzando su tutto il territorio» si legge sul sito della Regione. «Nelle Case della salute l'assistenza avviene attraverso l'azione congiunta dei medici di famiglia, dei pediatri, dei medici specialisti, degli infermieri, degli assistenti sociali, delle ostetriche, degli operatori socio assistenziali, del personale allo sportello, delle associazioni di pazienti e di volontariato. In tutta la Regione sono attive 107 Case della salute».

Spiega il dottor Paolo Schianchi, medico di famiglia a Felino (Parma): «Questa in cui lavoro io è una Casa della salute. È distribuita su due piani: sopra siamo in tre medici di medicina generale convenzionata, una segretaria e un'infermiera. Nel piano sottostante c'è l'infermiere di territorio della Asl, il consultorio pediatrico, un'ostetrica e il centro prelievi». Una squadra che ha gestito l'emergenza in collaborazione con i Sips, i servizi di Igiene pubblica: «Sono stati loro a organizzare tutto» spiega Schianchi.

Servizi che invece in Lombardia non esistono praticamente più. «Da noi la penalizzazione del territorio è passata anche attraverso lo smantellamento dei servizi di Igiene pubblica e di Sanità territoriale» osserva Mangiagalli. «Faccio un esempio. Quand'ero bambino il medico scolastico, che era in capo ai servizi di Igiene pubblica, garantiva un controllo della salute dei bambini e indirettamente delle loro famiglie. Ora non esiste più. E come non esiste più quella figura, non esiste più neanche la struttura che le stava dietro». L'indebolimento del servizio di Sanità pubblica in Lombardia è insomma un grosso problema... «Ed è evidente che in qualche modo va ricostruito» commenta Crisanti.

Passiamo al secondo ingrediente per arrivare preparati alla eventuale seconda ondata di Covid. «Avere personale sul territorio che vada a casa delle persone che stanno male, che dia loro la terapia, che faccia il tampone, che controlli il rispetto della quarantena..» prosegue Crisanti. «E purtroppo questo è un lavoro capillare, ci vuole tempo per organizzarlo. Non ci si può improvvisare».

Ma per avere personale efficiente sul territorio occorre avere qualcuno che li coordini... «E lì servono i servizi epidemiologici. Se non ci sono, l'operato del personale sul territorio diventa qualcosa di carattere quasi volontario e non qualcosa di organizzato». Ma se tali servizi sono stati pressoché smantellati, che cosa si fa? Si possono ricreare nel giro di pochi mesi? «Non è facile».

E il terzo ingrediente, qual è? «Fare i tamponi» risponde Crisanti. «Quando le persone accusano i sintomi vengono caricate sul sistema. Dopo di che bisogna andare da loro, vedere se effettivamente sono malate, vedere se hanno trasmesso l'infezione ai parenti, fare il tracciamento dei contatti. È così che si fa: si spulcia questa margherita».

Il tracciamento dei contatti è il quarto ingrediente, vero? «Sì. A questo punto se c'è un'app che funziona, ma deve funzionare veramente, non al 60%, può essere davvero utile» prosegue Crisanti. A proposito di tamponi, voi in Veneto riuscite a fare tutti quelli di cui avete bisogno, vero? «In linea di massima sì. Noi abbiamo macchine che sono in funzione 24 ore su 24 da 60 giorni». La famosa macchina americana che lei ha voluto? «Quella funziona in maniera fantastica».

La Labcyte 525 della Beckam Coulter, però, ormai è introvabile, a causa del blocco delle tecnologie ritenute strategiche dagli Stati Uniti. «Comunque non è indispensabile. Le analisi si possono fare anche con una robotizzazione meno sofisticata: non ci vuole per forza quella macchina. Noi l'abbiamo presa perché volevamo arrivare a numeri molto elevati. Ma ci sono sistemi di robotizzazione meccanica che consentono di fare 1.000-1.500 tamponi al giorno senza problemi».

In Lombardia il problema sono i reagenti, ormai introvabili. «E ci credo che hanno problema di reagenti» sbotta Crisanti. «Ma sa perché? Perché hanno fatto la scelta di usare sistemi a circuito chiuso. Noi abbiamo macchine a circuito aperto». Cioè che usano reagenti «universali», non specifici per il coronavirus.

Ad ogni modo, volendo, si potrebbe ovviare all'inconveniente dei reagenti? «Sì, volendo si potrebbe» risponde Crisanti. E come? «Bisognerebbe mettere insieme dei sistemi aperti». E quanto tempo ci vorrebbe? «Se me lo avesse chiesto tre mesi fa, avrei risposto 15 giorni, il tempo per la consegna delle macchine. Adesso non lo so, sinceramente non lo so. Perché c'è una pressione su queste macchine aperte che lei non ha idea».

Tornando al quarto ingrediente, il tracciamento dei contatti, che cosa si fa se non si dispone di un'app che funzioni? «Senza app è difficile, perché in genere si intervista il malato. Ma il malato è malato e ha una componente emotiva di ansia che non facilita questo compito». E allora? «Come dicevo si possono fare micro-zone rosse». Dunque se l'app non funziona l'alternativa è fare a tappeto a tutti? «Sì, facendo delle micro zone rosse là dove ci sono dei cluster o un numero consistente di casi».

Ovvio che, se succede a Milano, è più complicato... «Ma anche a Milano ci sono quartieri, edifici, condomini... Non è poi così complicato. Perché per esempio se in un condominio ci sono tre o quattro casi, la cosa migliore è prendere, andare lì a fare tamponi a tutti e chiudere il condominio per una settimana. Questo si deve fare: la ricetta è quella. Poi se c'è un piccolo paesello si fa la stessa cosa».

Insomma, in Lombardia andrebbe tutto riorganizzato... Si riesce a farlo in poco tempo? «Sicuramente non in poco tempo, ma ricordiamoci che in Lombardia ci sono fior di medici» riconosce Crisanti. «Se c'è la volontà politica di farlo, in un mese si riesce a mettere in piedi una struttura che funziona. Poi chiaramente dipende dalla volontà politica, dalle risorse che ci si mette. All'inizio sarebbe un po' caotico, ma poi le cose si sistemerebbero».

«È chiaro che se non interviene immediatamente con correttivi efficaci, coinvolgendo i medici di medicina generale, in autunno si rischia di ricominciare da capo» commenta sconsolato Mangiagalli. «Ma l'autunno è dietro l'angolo: bisogna correre da subito».

(continua)





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Elisabetta Burba