Caso Abu Omar: la verità di Niccolò Pollari
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Caso Abu Omar: la verità di Niccolò Pollari

Dieci anni dopo il sequestro di Abu Omar, la prima ricostruzione che fa luce sulle troppe ombre di un clamoroso caso politico

Può capitare di essere condannati a 10 anni di carcere al termine di un processo senza diritto di difesa. E capita che questo avvenga non in una «democratura» sudamericana,ma in Italia, quando al centro dell’inchiesta c’è il rapimento e la cattura di
un imam egiziano sospettato di terrorismo.

«Mi trovo sotto processo per un fatto a cui,come è noto a tutti, sono totalmente estraneo». Così risponde Nicolò Pollari, nel 2003 capo del Sismi, il servizio segreto militare.
I «tutti» cui lei si riferisce sono i capi di governo, Silvio Berlusconi, Romano Prodi e Mario Monti, che a magistrati e giudici hanno opposto il segreto di stato?

È difficile ipotizzare che tre governi, di colore diverso, si mobilitino al solo scopo di fornire un salvacondotto al signor Pollari. Ho indicato atti e strumenti che contengono le prove della mia innocenza, ma l’autorità politica mi ha ordinato di mantenere il segreto. Non ho potuto difendermi.

Il capo dello Stato ha appena concesso la grazia al colonnello statunitense che contribuì materialmente al trasferimento di Abu Omar. Un atto dettato, si è detto, dalla ragion di stato. Toccherà anche a lei?                                                            

Il presidente Giorgio Napolitano ha agito in nome dell’interesse generale del Paese, come ha sempre fatto nel suo settennato.Tuttavia, la prospettiva non renderebbe certo giustizia a un innocente, quale io sono e sono sempre stato.

«Panorama» è entrato in possesso di documenti inediti sulla figura di Abu Omar. I rapporti fra lui e i servizi non sono chiari: ci sono dialoghi e testimonianze che incrinano la teoria del rapimento e suffragano l’ipotesi che si sia trattato di un tentativo di reinserimento nella rete informativa del Cairo. Nella richiesta di asilo all’Italia del 1999 l’imam, tra strani pellegrinaggi e fulminee detenzioni in Egitto, descrive abusi e torture con modalità che riecheggiano quelle riferite per il sequestro del 2003.Sulla figura di Abu Omar voglio e posso dire poco. Egli era oggetto di penetranti indagini da parte della polizia giudiziaria e della magistratura milanese. In presenza di attenzioni così pregnanti l’interesse del Sismi nei suoi confronti era sensibilmente affievolito.

Ma Abu Omar non era pur sempre un sospetto terrorista?                                        

Certo, ma se ne occupavano già altri. Per noi non era un obiettivo informativo di primo piano.

Sul caso, prima dell’arrivo dei pm Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, c’è chi sostiene che la Procura di Milano abbia tenuto un comportamento ambiguo.

Ci sono state davvero sviste che hanno ritardato le indagini?
Questi sono «interna corporis» della magistratura e della polizia, su cui non mi esprimo.

Gli agenti Cia che prelevano Abu Omar utilizzano con disinvoltura carte di credito e telefonini. Sono dilettanti allo sbaraglio oppure contano su una copertura?       Se la Cia si è interessata a quell’obiettivo, non lo ha fatto attraverso me e il Sismi da me diretto.

Dalle carte emerge anche un «triangolo informativo» tra Cia, Ros e Digos.
Reputo irrituale il fatto che la polizia giudiziaria collabori direttamente con l’intelligence di un paese straniero. Non lo raccomanderei mai. È possibile che gli americani avessero fornito alla polizia italiana interpreti e strumentazioni, in un caso persino una «microspia autoalimentata». Se così fosse, sarebbe ancora più preoccupante, per via della possibile permeabilità delle strutture italiane.
Il Sismi era forse meno collaborativo con la Cia?
I rapporti fra intelligence sono cosa diversa dai rapporti tra polizia di un paese e intelligence straniera. Abbiamo collaborato con la Cia senza complessi e, almeno per quanto mi riguarda, entro i limiti consentiti dalla legge.
Lei sa che Bruno Megale, allora dirigente della sezione antiterrorismo della Digos, ha ammesso di essersi recato nel 2002 a Guantanamo per interrogare alcuni detenuti in assenza dell’avvocato?
Nessun appartenente al Sismi da me diretto ha mai messo piede a Guantanamo.

È azzardata l’ipotesi che gli organi di polizia italiana siano stati «penetrati» dai servizi americani?
Quando si ha a che fare con l’intelligence straniera, il rischio è altissimo.

Ma allora la Cia era in grado di compiere sequestri sul territorio italiano senza che il Sismi ne avesse alcuna notizia?
Le indagini hanno accertato l’assenza di utenze telefoniche riferibili al Sismi non solo il 17 febbraio 2003 (il giorno del rapimento, ndr), ma anche nei due mesi precedenti. Dal processo risulta che la Cia rispetto a questo obiettivo collaborava con altri soggetti. Noi non ci occupavamo certo di controllare le forze di polizia.

«Panorama» è entrato in possesso delle due lettere datate 25 gennaio e 1° febbraio 2013 con cui il presidente del Consiglio Monti ribadisce agli imputati l’obbligo di mantenere il segreto di stato.

Monti conferma l’inutilizzabilità dei verbali acquisiti dalla corte d’appello, ancorché coperti dal segreto.                                                                                    Quei verbali non sono mai stati stralciati dal fascicolo.Che vuole che le dica, io continuo a rispettare la legge. Spero che lo facciano anche gli altri.

Non ha mai pensato di violare il segreto e chiarire una volta per tutte quali erano gli accordi con la Cia?
Lo farei, e volentieri, se il presidente del Consiglio mi autorizzasse. D’altronde, se pure accettassi il compromesso morale di farlo senza autorizzazione, incorrerei in un reato molto più grave di quello che mi viene contestato.

Secondo la corte d’appello lei avrebbe fornito «appoggio» alla Cia.
La sentenza si basa su mere congetture, prive di riscontro probatorio, ed è probabilmente figlia del pregiudizio secondo cui io e il Sismi non potevamo non essere coinvolti.

Lei specifica sempre di parlare del Sismi «da me diretto», come a non escludere che in precedenza o successivamente i servizi abbiano potuto partecipare a operazioni di «rendition», rapimento. Il volo di Abu Omar non fu l’unico volo segreto operato dalla Cia con transito in Italia, vero?
Io parlo di ciò che conosco. Alle autorità competenti è ben noto che nelle ipotesi, e ve ne sono state, in cui si sono manifestate simili prospettive, esse sono sempre state respinte al mittente.

Se tali richieste sono giunte, la solerzia di tre governi farebbe ipotizzare che gli accordi di cooperazione tra i servizi siano stati conclusi a livello intergovernativo.
Non posso rispondere.

Quando è scoppiato il caso Abu Omar, lei non ha chiesto lumi al suo omologo egiziano Omar Suleiman?
Ho risposto a una sua domanda: «Lo chiedete a me?». La mia controparte, che era bene informata trattandosi del responsabile dei servizi del paese destinatario di Abu Omar, ebbe a dirmi: «Quando la faccenda non ti recherà più imbarazzo, mi spiegherai che cosa sta succedendo in Italia». Lui, che aveva ben chiara l’estraneità del Sismi, pensava probabilmente a una messinscena mossa da chissà quali ragioni politiche.

Sta di fatto che i rapporti fra Abu Omar e i servizi egiziani non sono chiari. Dopo l’arresto, l’imam confida alla moglie che era previsto che lo trattenessero soltanto un mese, ma poi «è sorto un piccolo problema».

È plausibile l’ipotesi che il sequestro fosse un modo per legittimarlo agli occhi dei Fratelli musulmani?
Non posso escludere nulla, ma non intendo spacciare per elemento di conoscenza ciò che potrei anche solo supporre.

Berlusconi ha dichiarato di avere «piena contezza» della sua innocenza.
Ha anche aggiunto che, se avessero chiamato a testimoniare lui o gli altri presidenti del Consiglio, non avrebbero potuto fare altro che confermare l’esistenza della «prova oggettiva» della mia innocenza.

La sua avversione alle consegne speciali ha mai portato a qualche attrito con l’esecutivo in carica? A «Panorama» risulta che in un caso lei sia arrivato a rassegnare le dimissioni.
Non posso rispondere.

Le accuse nei suoi confronti si fondano essenzialmente sulle dichiarazioni di un coimputato, il defunto generale del Sismi Gustavo Pignero. Da un’intercettazione ambientale si evince che il Sismi era al corrente del piano americano, pur avendo declinato la richiesta della Cia. È così?
È materia segretata. Posso solo dire che la verità è totalmente diversa: questi sono frammenti di indizi, peraltro di utilizzazione vietata, posti al di fuori del quadro d’insieme.
In proposito non è stato consentito neppure un minimo di dibattito difensivo. E poi le persone indicate non si sarebbero mai potute occupare di attività simili.

Non era quella la divisione da mobilitare?
È una sua deduzione.

Quali sono stati i contraccolpi di una vicenda che ha squadernato nomi e numeri di telefono di decine di 007?
Contraccolpi ve ne sono stati. In diverse sedi ci si è interrogati sull’affidabilità del nostro sistema di intelligence.

Com’è cambiata la sua vita?
Al di là dei disagi per me e per la mia famiglia, a causa di oltre sei anni di processi ingiusti, mi amareggia il pensiero che una vita spesa al servizio dello Stato possa essere «premiata» in questo modo.

Lei ha mai avuto paura di una reazione da parte dei paesi arabi?
I governi arabi sanno come stanno le cose: mi hanno manifestato solidarietà più che in Italia. Il problema è l’attività di diffamazione che ho subito: sono stato ritratto come un sequestratore di persone anche presso quegli ambienti islamisti che potrebbero nutrire sentimenti di rivalsa.

Le manca la vita da «spia», ammesso che lei l’abbia abbandonata?
Io mi sono sempre innamorato del lavoro che ho svolto, non della poltrona su cui sono seduto.

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