'Non chiamatemi piccolo Vallanzasca. Ora voglio studiare'
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'Non chiamatemi piccolo Vallanzasca. Ora voglio studiare'

In esclusiva, le lettere dal carcere di "Pulce", criminale da quando aveva 10 anni.

Di Renato Vallanzasca non ha lo sguardo né il physique du rôle. Esile, occhi grandi e castani, un brillantino infilato nel lobo sinistro, naso a patata da adolescente: a vederlo sembra tutto tranne che un criminale. In comune, però, con il bel René, ha un numero: il dieci. Perché quell’età, per entrambi, ha segnato il battesimo nel mondo del crimine.

La biografia di Riccardo Di Cataldo, 14 anni, soprannominato Pulce o – appunto – piccolo Vallanzasca, nato e cresciuto nelle case popolari di Quarto Oggiaro, nota come la Scampìa di Milano, è scritta nero su bianco nei verbali di polizia. Una storia che esordisce con l’attività di “vedetta” per il più pericoloso clan del quartiere, per conto del quale imparava a memoria le targhe delle auto degli "sbirri", decolla con i furti e culmina con una rivolta carceraria in piena regola all’istituto minorile di pena Cesare Beccaria. Nel mezzo: una latitanza lunga 4 mesi e un’esistenza borderline costellata di rapine, spaccio di droga, fughe. E un intero quartiere pronto a osannarlo.

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Padre e fratello maggiore pregiudicati, una sorella affidata in comunità quando era bambina, una madre che si arrabatta ogni giorno in cerca di uno spiraglio di legalità, l’esistenza di Pulce non è mai stata dorata. Ma oggi mette da parte i toni da duro e, attraverso una serie di lettere dal carcere, che Panorama.it pubblica in esclusiva, lancia un appello: “Ho capito i miei errori. Ora voglio studiare, e cercare di avere una vita normale”.

Allontanato dal Beccaria lo scorso settembre come provvedimento d’urgenza punitivo per la rivolta che aveva guidato, e trasferito in un istituto di Catania, Pulce è tornato da pochi giorni nel carcere minorile milanese. Ed è da lì, seguito dal cappellano don Gino Rigoldi – l’anziano parroco che ha dedicato la sua intera vita al recupero dei giovani criminali – che partirà il suo faticoso cammino verso un reintegro sociale. Che dovrà essere fondato, soprattutto, sullo studio.

Quando tornerò a Milano – scrive Pulce nelle lettere indirizzate alla famiglia – voglio finalmente riuscire a dare l’esame di terza media. Così sarò a posto e non avrò più problemi”.

Mio figlio è stato rovinato dal quartiere, dalle amicizie sbagliate – si sfoga la madre Roberta, occhi azzurri e aria stanca – per un periodo ha frequentato una scuola protetta nel centro di Milano, lontano dal suo ambiente, e andava benissimo, era tranquillo: amava studiare musica e matematica. Questa è la prova che allontanandolo da quella zona è possibile che le cose cambino. Ma le istituzioni devono occuparsi di lui, seguirlo nel suo recupero. Non devono abbandonarlo. Altrimenti tutto sarà inutile”.

Quello di Pulce per la famiglia e il quartiere è un amore folle, ma anche un’arma a doppio taglio. Perché per ogni bambino il proprio padre è sempre un eroe. Persino quando sbaglia. E nelle sue lettere colorate, piene di fiori e cuori, i pensieri sono rivolti soprattutto a lui: “Ti voglio tanto bene. Ti prego non fare più cazzate”.

Ho visto gli agenti che arrestavano papà, di notte, quando ero appena un bambino – scrive – e cosa potevo fare se non odiare la polizia? E’ stato allora che ho scelto quale sarebbe stata la mia vita”.

Una vita – appunto - che scimmiotta clichè di mafia, che sfida la legge come forma di vanto. Che fa del coraggio ostentato la propria bandiera, pronta però a si frantumarsi come uno scudo di cristallo nei momenti più impensabili. E a sciogliersi in irrefrenabili crisi di pianto.

Imprevedibile e istintivo. Come quando, nel maggio 2011, accolto da una comunità per minori di Genova, è salito su un treno per Milano e ha fatto perdere le sue tracce per quattro mesi, trascorsi da latitante. “In quel periodo – racconta con vanto – non mi sono mai mosso dal quartiere. Potevo contare sulla protezione di un sacco di gente”.

I guai sono arrivati, però, il 23 febbraio 2012: il giorno del suo 14esimo compleanno. Da quel momento, per lo Stato italiano, non è più un bambino. Per Quarto Oggiaro aveva smesso di esserlo da tempo.

Racconta oggi l’allora dirigente del commissariato di quartiere, Angelo De Simone, lo “sbirro” buono, una delle persone che più si è battuta perché a Pulce fosse data una possibilità di recupero: “Finché abbiamo potuto l’abbiamo aiutato. Ma mancavano comunità protette adatte a lui, che potessero seguirlo. Abbiamo segnalato questo caso anche all’assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Milano, nella speranza che potessero fare qualcosa per lui”.

Il caso di questo ragazzo è emblematico, perché apre uno squarcio sul sistema carcerario minorile, che è completamente da rivedere – tuona invece l’avvocato Claudio Defilippi, legale della famiglia Di Cataldo – i giovani detenuti devono lavorare per sentirsi utili, dentro e fuori dal carcere, ed essere seguiti in tutta la fase del loro rientro in società. E non abbandonati a se stessi. Altrimenti la possibilità che tornino a delinquente è quasi una certezza”.

Pulce, dal canto suo, stavolta ce la vuole mettere tutta: “Io cambierò”. E chiude ogni lettera con un vecchio detto della "mala", che più che un augurio sembra un monito: “Forza e coraggio, che la galera è di passaggio”.

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Arianna Giunti