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Bullismo: perché si diventa vittime del branco

Adolescenti derisi e vessati come la giovane di Pordenone. Adulti minacciati e rinchiusi nei cassonetti. Il bullismo non ha età: è una tensione animale

“Il bullismo? È una tensione animale. Il branco o meglio l'idea del branco è uno dei nostri sistemi motivazionali, più antichi come il sistema dell'attaccamento o dell'accudimento. All'interno del branco si rafforzano legami sociali, si stabiliscono gerarchie di rango, ci si coalizza verso presunti nemici comuni.”

E Maria, il nome è di fantasia, 12 anni di Pordenone che ieri si è lanciata nel vuoto dalla finestra della sua cameretta, era diventata il ‘nemico’ da attaccare, da dilaniare con vessazioni e parolacce, da distruggere. Il branco di bulli c’era quasi riuscito ad ucciderla se a rallentare la corsa nel vuoto verso il marciapiede non ci fosse stata la tapparella del vicino di casa.

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Di bullismo, tuttavia, si può morire anche in età adulta. Sembra quasi impossibile ma Andrea Natali, 26 anni, di Vercelli si è tolto la vita impiccandosi. Secondo i suoi genitori, il motivo sarebbe da ricondurre agli atti di bullismo di cui era vittima sul posto di lavoro. Scherzi sempre più pesanti, come chiuderlo in un bidone dell'immondizia, fotografarlo e pubblicare l'immagine su Facebook. Andrea aveva presentato anche una denuncia, ma la forte depressione in cui era caduto lo ha portato all'estremo gesto prima che le indagini potessero avere termine.

"Il gesto estremo è un gesto che riassume e riannoda tutta una serie di tematiche che giacciono sepolte da anni nella nostra mente e soprattutto nel nostro modo di relazionarci con gli altri" spiega Silvio Ciappi, psicoterapeuta, criminologo clinico e consulente psichiatra nel caso giudiziario di Veronica Panarello. "La nostra mente è relazionale, ha bisogno dell'altro. Ha bisogno soprattutto di alimentare quel nesso che c'è tra fiducia dell'altro e fiducia in se stessi o autostima. Le due cose interagiscono. Il nostro essere è un essere-con. Lo avevano già detto gli antichi, lo ha ripetuto il filosofo tedesco Heidegger e ce lo ripetiamo noi, esperti della mente. La sofferenza nasce quando non vediamo più l'altro che diviene solamente una proiezione delle nostre paure più profonde. Un conto è vedere nell'altro un molestatore, un altro concepirlo come persecutore. Tra le due cose c'è differenza. Se penso che l'altro mi aggredisca, posso reagire in tanti modi. Se lo vedo come un persecutore, lo interiorizzo, diviene parte di me".

In ogni caso di bullismo emerge in modo chiaro e netto come l’essere umano dipenda così fortemente dal giudizio e dal comportamento dell'altro, da come l'uomo introduca pesantemente l'altro nella propria vita, fino a farlo diventare un'ombra oscura e minacciosa. "Spesso l'atto tragico diviene l'atto finale di tutta una serie di comportamenti precedenti che vanno ben individuati" aggiunge Ciappi. "Non servono pseudoattività di counseling psicologico nelle scuole. Occorre invece una interazione forte tra scuola e famiglia, non limitata all'aritmetica dei numeri e dei voti".

E il caso di Pordenone?
Credo siano intervenuti alcuni fattori, come la noia, la violenza interiorizzata, la povertà culturale. Tutti temi sui quali anche il corpo docente può e deve intervenire. Che me ne faccio di tanta cultura se questa non entra nella vita, se questa non riesce a rappresentare per me uno spunto di riflessione? Il bullismo in sostanza riflette una tendenza istintiva all'aggregazione e la riveste di un contenuto di noia e violenza.

Nel gergo dei bulli, ci sono parole o frasi che posso far decidere ad ragazzo o ad un uomo di uccidersi?
Difficile dirlo. In sostanza è il senso di inutilità a farti prendere decisioni così definitive. È un po’ l'esito di un funzionamento mentale di tipo depressivo, quando pensi che il mondo là fuori non abbia più nessun significato, quando un telefono che squilla non è più l'invito ad andare a rispondere o l'odore di un buon cibo a mangiare. Il mondo esterno non rappresenta più nessuna attrattiva e noi, ce lo dicono le neuroscienze, siamo animali relazionali, abbiamo bisogno dell'altro, del "là fuori". La malattia insorge quando ci isoliamo dagli altri.

La cronaca sembra far emergere come alcune persone siano più fragili di altre. È vero oppure no?
Ognuno di noi può scoprire la parte più debole. Dico anche che scoprire la propria parte più vulnerabile è anche la forza che ci può salvare. Tutta questa etica del trionfo a tutti i costi, ci indebolisce. L'ottica del trionfo recide i legami con la nostra fragilità e ci isola dagli altri. Scoprendoci deboli rivalutiamo anche la nostra necessità di stare con gli altri, di farsi consolare dagli altri, di non recidere legami. Paradossalmente sentirsi fragili è la nostra unica vera forza. Solo chi sa chiedere aiuto si salva.

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Nadia Francalacci